Durban: alluvioni, cambiamenti climatici e lezioni

di claudia
sudafrica

di Federico Monica

Centinaia di vittime, quartieri spazzati via dalle frane, ponti crollati, containers e camion sparsi come fossero piccoli giocattoli colorati. Le notizie e le prime immagini che arrivano da Durban, metropoli di tre milioni di abitanti capoluogo della regione sudafricana del Kwa Zulu Natal, sono impressionanti. Fra l’11 e il 13 aprile la città è stata sconvolta da una serie di nubifragi senza precedenti; la quantità di pioggia che normalmente si misura in alcuni mesi è caduta in poche ore, ingigantendo fiumi e torrenti che hanno travolto ogni cosa.

Fra le zone più colpite l’area del porto, il più importante del continente sull’oceano Indiano, che è stata parzialmente inondata, insieme a diverse zone industriali o depositi petroliferi. L’emergenza è ora anche ambientale, a causa degli sversamenti arrivati fino al mare e soprattutto dell’enorme quantità di plastica trasportata a valle dalle discariche o dalle case distrutte; un fiume colorato che intasa gi alvei vicino ai ponti e che sta addirittura bloccando le banchine portuali.

Come spesso accade però i danni peggiori si sono verificati nelle township più recenti. Quartieri cresciuti in fretta, realizzati occupando gli spazi di terreno ancora liberi e quindi più esposti ai pericoli, spesso proprio in riva ai fiumi, vicino a torrenti in secca o su pendii scoscesi. Sono moltissime le township colpite e nei casi peggiori parzialmente distrutte, tanto che si calcolano oltre 40.000 persone rimaste senza abitazione mentre elettricità e acqua corrente sono ancora interrotte in diversi quartieri. Un’emergenza che si somma alla crisi economica già presente e che ha già causato diversi saccheggi oltre che proteste di strada contro le autorità locali e nazionali.

Nuovi metodi di aiuto

Ma non ci sono solo rabbia e proteste. La mappa della città che compare sullo schermo è piena di icone rosse e verdi che sembrano ricalcare i percorsi dei fiumi.

“Abbiamo perso tutto, ci servono vestiti e materassi”, “Ho tre bambine e siamo senz’acqua”, “la mia casa non ha più il tetto, ci serve ospitalità” sono alcuni dei messaggi che compaiono cliccando su uno dei segnaposti in rosso della mappa Durban Crisis Map, sviluppata dalla società locale Black Box che permette a chiunque di indicare la propria posizione e inserire le proprie esigenze e i propri recapiti. Uno strumento semplicissimo ma straordinariamente efficace per intervenire il più rapidamente possibile e, soprattutto, per fare rete con le tante iniziative di solidarietà.

I tantissimi segnaposti verdi infatti indicano persone che mettono a disposizione un aiuto, ed è così che la mappa si riempie di offerte: “Ho magliette, pantaloni e due paia di scarpe un po’ vecchie ma buone” scrive Mohale dalla zona sud della città, Femada da Westhill offre ricariche telefoniche mentre un centro vicino alla cattedrale segnala di mettere a disposizione colazioni e pranzi per chi ha bisogno.

Il ruolo dei cambiamenti climatici

Il disastro di Durban suona come una tragica conferma: la costa sudorientale del continente africano è senza dubbio uno dei fronti più caldi in cui gli effetti dei cambiamenti climatici iniziano a farsi sentire colpendo duramente. Non solo con eventi atmosferici disastrosi, come quelli di Beira nel marzo del 2019 o soltanto pochi mesi fa sulle coste nord-orientali del Madagascar: l’altra faccia della medaglia è infatti quella della siccità, che rapidamente rischia di tramutarsi in carestia portando alla fame centinaia di migliaia di persone.

È quello che accade da mesi nelle regioni sud-occidentali dello stesso Madagascar ed è quello che, in misura minore ma comunque drammatica, sperimentano i contadini in Swaziland o in Mozambico da quasi dieci anni. Acqua che scarseggia sempre più e, come in una tragica beffa, quando arriva distrugge tutto ciò che incontra portando con sé case, provviste, vite umane.

Lezioni da Durban, quale futuro per le nostre città?

Le notizie e le immagini che arrivano da Durban, così come quelle che negli ultimi anni sono giunte da Mozambico e Madagascar raccontano anche un altro aspetto che dovrebbe farci riflettere seriamente: le infrastrutture, a cui nell’ultimo secolo ci siamo affidati per proteggerci dagli eventi estremi, iniziano a non essere più sufficienti di fronte all’aumentare dell’intensità dei fenomeni atmosferici.

Finora il problema è sempre stato risolto aumentando e potenziando le infrastrutture stesse, innalzando sempre di più gli argini, irrobustendo barriere o ponti ma fino a che punto questo modello sarà sostenibile?

Forse sarebbe necessario un modello alternativo di sviluppo per le città, non più basato sulla trasformazione forzata del territorio ma sulla capacità di adattamento, sulla leggerezza, sulla possibilità di assorbire fenomeni estremi assecondandoli e non contrastandoli. Su questo le città africane, in gran parte effimere, resilienti, adattive, avrebbero molto da insegnare.

Difficile? Difficilissimo. Soprattutto da immaginare, dopo decenni se non secoli di abitudine all’infrastrutturazione pesante dei territori, ma i cambiamenti epocali che abbiamo sotto gli occhi ci insegnano innanzitutto una cosa: il business as usual non è più praticabile, servono nuove strade, anche apparentemente utopiche.

Foto: Maxar Technologies

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