Amref: «Ecco gli effetti del Covid-19 in Africa»

di AFRICA

Fino ad ora i numeri non sono allarmanti, potrebbero diventarlo oppure no. Il dibattito su come si evolverà la pandemia in Africa è aperto, ma ciò che conta è come il continente sta affrontando l’emergenza. In questa battaglia oltre ai governi ci sono organizzazioni non governative come Amref, che si occupa di sanità mettendo a disposizione delle istituzioni anche applicazioni tecnologiche utilizzabili per veicolare informazioni sulla pandemia e sulle buone pratiche o per formare operatori che poi intervengono sul campo. I telefonini, di vecchia o nuova generazione, sono così diffusi da rappresentare uno strumento essenziale nella lotta al coronavirus.

Massima cautela

«In Africa i numeri sono in crescita. Non sono impressionanti come quelli che stiamo vedendo in Italia, in Europa in generale o in America, ma dobbiamo stare in allerta. Dobbiamo studiare gli sviluppi della curva dei contagi ed essere molto cauti», spiega Guglielmo Micucci, direttore di Amref Health Africa-Italia, «in prospettiva sarebbe davvero difficile poter contenere dei numeri così alti viste le difficoltà nel far rispettare il distanziamento sociale e la fragilità dei sistemi sanitari locali. Rafforzare le capacità dei laboratori di analisi e affiancare i governi nella comunicazione a tappeto è un lavoro da fare subito. Noi lo facciamo anche formando operatori di salute comunitari attraverso una app, che si chiama Leap e che nel solo Kenya ha formato circa 50mila operatori».

Amref ha raccolto sul proprio sito le testimonianze dei suoi operatori. Qui ne abbiamo raccolte alcune.

Il caso dei griot

Mariem Sané, che opera in Senegal nella regione di Kolda, racconta: «Ogni giorno raggiungo 100 persone e più. La vita di molti è stata danneggiata dal Covid-19 e dalle misure del Governo. É il caso dei griot tradizionali – poeti e cantori che svolgono il ruolo di conservare la tradizione orale degli avi – e di chi si occupava delle cerimonie. Queste persone non possono più avere entrate, perché i loro guadagni quotidiani dipendevano appunto dalle cerimonie familiari (matrimoni, battesimi, ecc.). Imam e fedeli non hanno più accesso alle moschee, le domestiche non possono più gestire le loro piccole imprese, gli autisti si sono dimessi o hanno interrotto le proprie attività. All’inizio molti di loro erano riluttanti ad accettare determinate misure governative. Tuttavia, grazie alla comunicazione e alla divulgazione di informazioni all’interno della comunità, le persone hanno finalmente compreso la necessità di queste misure restrittive. Ma la minaccia rimane reale». Mariem e gli altri operatori si muovono di mercato in mercato, ogni mattina, per controllare se ci sono igienizzanti, e di casa in casa, per dare le necessarie informazioni sul Covid-19.

L’isolamento e lo stigma

Emmanuel Ebitu, membro della task force distrettuale nata per contrastare il Covid-19 nell’area di Arua, in Uganda, sede del campo per rifugiati sudsudanesi (il Rhino Camp), racconta quello che lo ha colpito di più: «Innanzitutto la morte, in seguito alla chiusura del Paese, di molti bambini e donne incinte che non hanno potuto raggiungere gli ospedali. Poi la fame delle famiglie, aggravata dalla crisi sanitaria, ma anche la stigmatizzazione di individui che hanno viaggiato di recente all’estero o che sono risultati positivi al test per il Covid-19: ci sono state segnalazioni di famiglie o di individui inseguiti dalle comunità! Grave anche la mancata distribuzione di farmaci per soggetti con problemi di salute come diabete, tubercolosi o HIV. Ha pesato poi la mancanza di dispositivi di protezione individuale per gli operatori sanitari in prima linea negli ospedali. Queste sono le cose che più continuano a addolorarmi di questa lotta».

Fake news

«Sono responsabile di oltre 500 famiglie qui a Kibera». Repha Kutai è una Community Health Worker (CHW), una operatrice di salute comunitaria, in una delle baraccopoli africane più grandi a Nairobi, capitale del Kenya. Il suo lavoro in tempo di Covid19, in uno spazio in cui è quasi impossibile mettere in pratica il distanziamento sociale, è quello di sfatare le false informazioni sul virus e, casa per casa, di dare supporto alla lotta di Amref per la salute delle comunità. I CHW colmano il divario tra la comunità e il sistema sanitario formale essendo membri delle comunità in cui operano. Conoscono le chiavi per un’educazione comunitaria e la promozione della salute. La comunità ha fiducia di persone come Repha e in lei trovano conforto.

(Angelo Ravasi)

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