Addio all’Africa di Edo

di Marco Trovato
Si è spento pochi giorni fa all’età di 77 anni Edoardo Di Muro, geniale illustratore italiano che ha raccontato, come nessun altro, l’Africa in punta di matita. Avventuriero girovago e artista poliedrico, Edo ha trascorso la vita sulle strade del continente. Si muoveva sempre con il suo cavalletto e i suoi fogli bianchi che in breve riempiva di schizzi fitti e minuziosi. Ci lascia in eredità straordinari disegni d’autore capaci di trasmettere pulsioni, odori e suoni, emozioni e dettagli che neppure la più nitida fotografia digitale può restituire.
Sul prossimo numero di Africa pubblicheremo un omaggio. Qui lo vogliamo ricordare con un intervista rilasciata nel 2006 a Pier Maria Mazzola che curò per la nostra rivista la mostra di sue litografie l’Africa di Edo.

di Pier Maria Mazzola

Siete qui, proprio qui, al mercato di Adjamé, dove Abidjan, la capitale economica della Costa d’Avorio, concentra tutto il brulichio di cui è capace. In tanti – donne soprattutto – trasportano qualcosa sulla testa, chi un sacco, chi un casco di banane, un cesto, oppure un ferro da stiro a carbonella o… una matita. E bambini, dappertutto bambini. Là in fondo a sinistra, due si accapigliano e la venditrice di vestiti tenta di dividerli. Il signore magro al centro in basso, giacca chiara e cravatta, occhiali scuri e sigaretta annoiata tra le dita, pare un po’ astratto in questo ordinato bailamme. Sta forse ammirando il Clint Eastwood di Per un pugno di dollari occhieggiare dal pagne della donna coi manghi? (Ehi! Ma non si accorge del ladruncolo che gli ha quasi infilato le mani in tasca?).

Mentre l’uomo con la matita tra i capelli verifica l’affidabilità della banconota allungatagli da un anziano musulmano, e il sospetto nel suo sguardo è enfatizzato dalle severe scarificazioni del volto, un altro laggiù si scola una bottiglia. Due bimbi accanto a lui si arrampicano sulla tettoia dove l’amichetto ha appena scoperto il tesoro: sedie e letti sfasciati, un copertone. In cielo, punta verso l’alto un aereo appena decollato. Sotto, una donna stende biancheria sul balcone. Una scena tenuta insieme da fasci di cavi elettrici, che la attraversano inseguendo diagonali tutte loro, e che sorreggono i pali della luce – come in Africa accade spesso – anziché da loro essere sostenuti.

E non abbiamo tentato di descrivere che la centesima parte di questa istantanea di Adjamé. Ma è impresa sconsiderata trasporre in parole la vita africana che tracima dalle tavole di Edoardo Di Muro. La china che la sua penna dispensa con esattezza inventa dettagli che fanno sobbalzare il cuore a chi l’Africa l’ha frequentata e amata, che fanno rimanere a bocca spalancata chi soltanto l’ha sognata. Non rimpiangi più la fotografia. Eppure non è iperrealismo. L’abilità tecnica qui non è virtuosismo, ma presta le dita al cuore.

Esploratore inquieto

Siamo andati a trovare l’autore nella sua casa fuori Cuneo. «Quella con fuori i bambù», aveva avvisato. Se in effetti dal 1997 ha ripreso dimora nella terra materna («per via della scuola dei miei figli»), Di Muro l’Africa se l’è portata dietro: oggetti, pensieri e disegni, mogli e figli, e i bambù. Ma in Africa ci torna appena può. L’ultimo viaggio lo ha portato in Marocco, a Zagora, “la porta del deserto”. Un’oasi 160 chilometri a sud-ovest di Ouarzazate – o, se preferite, a 52 giorni di cammello da Timbuctù. «Là un amico ha creato una comunità agricola e mi ha invitato – racconta l’artista – per insegnare a disegnare ai ragazzi, figli di nomadi sedentarizzati. Quei giovani hanno predisposizione per il disegno, ed è una cosa bellissima. Perché tutte le forme di espressione sono una valvola liberatoria formidabile. Ci fossero un po’ più di queste valvole, al mondo ci sarebbero meno criminali, forse…».

Così parlando, dice anche di sé. Non perché senza l’arte sarebbe diventato un avanzo di galera; ma in occasione di una prolungata sospensione della sua attività, per accudire la madre malata, si è reso conto di quanto il disegnare lo avesse sempre aiutato a «mantenere l’equilibrio». E certo una vita come la sua, di «avventuriero ed esploratore» necessitava di un bilanciere adeguato.

L’Africa nel cuore

In Africa Edoardo Di Muro ci arriva per la prima volta, non ancora trentenne, da marinaio, su un cargo approdato a Lagos. È il 1973. Dalla Nigeria all’Alto Volta, l’odierno Burkina Faso, e di lì in Angola, dove entra in contatto con l’Mpla, il principale movimento di liberazione di lotta contro il colonialismo portoghese, e poi con i guerriglieri della Swapo che combattono il Sudafrica per l’indipendenza namibiana. Per questi ultimi crea dei manifesti di propaganda che oggi rivede con occhio distaccato: «Stile sovietico!». La guerra è guerra, non ha riguardi per chicchessia, e una brutta ferita lo convince a ripiegare per qualche tempo in Europa. Dove trova moglie, ma africana, naturalmente. Zulu, per la precisione.

È l’amore per Harwina che lo ha fatto tornare in Africa per rimanervi? «No no!», si schermisce. «Sono restato perché mi trovavo bene. L’Africa all’epoca era un paradiso, anche se c’erano dei casini come la guerra in Angola. Mi piaceva vedere le cose, scoprire, non mi bastava mai… Quando ne avevo combinata una ne dovevo combinare subito un’altra… Giravo, però ho sempre lavorato, ho sempre disegnato, nei momenti liberi».

Da Gorée alla Costa d’Avorio

Il Senegal è il Paese che lo ospita più a lungo. Dapprima nell’isola di Gorée, la celebre isola degli schiavi. Qui fa società con Jimmy, un disertore americano che fuggendo dal Vietnam aveva appreso nelle isole della Sonda l’arte del batik. «Abbiamo fatto delle esposizioni bellissime, finalmente abbiamo fatto un po’ di soldi… E abbiamo fatto festa!». Tra i suoi ammiratori, anche il presidente-poeta Senghor che nel 1979, durante una mostra a Dakar, lo invita nella sua residenza e gli acquista tutta una serie di litografie.

Ma si sa, i giorni non sono tutti uguali. Unico bianco a Guédiawaye, un grande quartiere popolare di Dakar, il suo stile di vita non si distingue molto da quello della gente comune; e il baffuto cuneese si ritrova anche a doverne escogitare di tutte per procurarsi, letteralmente, il pane.

Poi nuove nozze: con Penda, una Bassari senegalese impalmata seguendo le usanze locali, che gli darà tre figli. Ma un nuovo e sferzante vento che si leva sul Senegal lo convincerà a lasciare, dopo quindici anni, il Paese d’adozione. Nel 1989 scoppia infatti un conflitto con la Mauritania, con gravi ripercussioni sulla convivenza tra i membri delle due comunità nazionali. Edoardo comincia a temere per i suoi figli, meticci e quindi simili di carnagione ai Mauri, cioè ai “nemici” cui i senegalesi si erano messi a dare la caccia. Ci furono molti morti. Edoardo passa con famiglia e bagagli in Costa d’Avorio. Qui farà il ranger nel Parco nazionale della Comoé. Ritrova così uno dei suoi lavori di gioventù, quando, prima di correre i mari, era stato guardacaccia in Valle Stura…

Il senso africano per l’arte

L’Africa di Edoardo Di Muro è lunga e larga. Lui sostiene, con il suo caparbio accento francese, di averne visto tutte le capitali, e non si fatica a credergli.

Gli ultimi tre anni prima di tornare in Piemonte, li ha vissuti ad Addis Abeba. Qui ha illustrato un testo per l’apprendimento del francese.

Nel suo moto perpetuo ha incontrato anche molti artisti del continente, e imparato a stimarli. «Gli africani – ci dice con convinzione – hanno una forma di vitalità che non dico che è diversa dalla vostra… anzi dalla nostra (in fondo sono un bianco anch’io!), ma riesce a stimolare degli angoli della sensibilità che noi non riusciamo più a risvegliare. Per questo anche il risultato espressivo è di alto livello».

E cita qualcuno di questi artisti: il senegalese Souleymane Keita, «che si avvicina all’espressività di Alexander Calder»; Ousmane Sow, anch’egli dal Senegal, l’ormai celebre scultore dei Nuba e dei Maasai in formato maxi; Chéri Samba, del Congo, «sempre solare»; il camerunese Jean-Baptiste N’Gnetchupa, «che un giorno si è messo a scolpire banconote: un artista formidabile, che al posto del Capo di Stato metteva la sua faccia, o quella dello zio… Un’idea ironica: i soldi scolpiti nel legno!».

Freschezza di spirito

Nel campo dell’arte, insomma, Di Muro vede esplicitato ciò che scorge negli africani in generale: sono loro la promessa del mondo.

Da dove gli viene una simile convinzione, visto che ha sperimentato sulla sua pelle anche la durezza, la violenza dell’Africa? «Quando parli con un contadino piemontese – fa notare – lui ti dirà sempre “sì sì, sì sì…”, ma hai l’impressione di stare davanti a uno che sa già tutto: ti risponde con l’occhio già altrove. Il contadino africano, invece, quando gli parli ti ascolta… ti ascolta! Qualsiasi cosa tu dica, lui ascolta. E ti rendi conto che non lo fa soltanto per educazione, ma cercando di capire quello che davvero vuoi dire. Anche i giovani africani, se fai bene attenzione a come reagiscono quando si parla con loro, vedi che cercano di capire. I nostri giovani, invece, o non ti ascoltano neanche per sbaglio, o per loro le tue idee sono in partenza sorpassate, si ritengono superiori. Ma se sanno già tutto, vuol dire che sono alla fine del ciclo. Oggi tutti sanno tutto… e nessuno ascolta più.

Questa invece è una delle cose più belle dell’Africa: il loro modo di ascoltare è freschezza di spirito, è qualcuno che tende a qualcosa, che vuole imparare…».

Sembène Ousmane, il celebre scrittore e regista senegalese, firmò la prefazione alla prima pubblicazione di “Edo”. Con parole che sembrano fare eco a queste appena uscite dalla bocca dell’artista: «Edoardo, uomo di verità, preferisce mostrare l’Africa “interiore”, della quale condivide il destino».

I disegni dell’articolo sono tratti dalla mostra L’Africa di Edo prodotta nel 2006 dalla Rivista Africa, nella foto di apertura (courtesy Maurizio Totaro) l’illustratore Edoardo Di Muro nella sua casa in provincia di Cuneo.

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