«Vi prego, dichiaratemi colpevole»

di AFRICA
Nyanzi 15

Un’attivista decisamente fuori dalle righe, Stella Nyanzi. Per contestare il potere – direttamente nella persona del presidente del suo Paese, l’Uganda – non esita a ricorrere a pesanti provocazioni verbali via web. Che l’hanno portata in galera. Rilasciata a febbraio, è stata nuovamente arrestata 

Accademica, scrittrice e femminista nonché attivista Lgbt, Stella Nyanzi è conosciuta fuori dai confini ugandesi essenzialmente per due ragioni: la campagna di crowdfunding #Pads4girlsUg, grazie alla quale è riuscita a fornire alle studentesse del suo Paese un milione di assorbenti, mettendo così tante giovani donne nella condizione di andare a scuola regolarmente anche durante il ciclo; la critica feroce, intenzionalmente e radicalmente maleducata, a Yoweri Museveni, presidente-padrone dal 1986 della “Perla d’Africa”. Condannata a 18 mesi di reclusione per offese al presidente e alla sua famiglia, l’attivista è stata rilasciata a febbraio (nell’occasione aveva commentato: «É bello essere fuori, ma non significa necessariamente essere liberi»), salvo essere nuovamente arrestata poche ore fa con altri attivisti mentre stava protestando a Kampala per la lenta distribuzione degli aiuti alimentari destinati alla popolazione durante il lockdown. Stella Nyanzi aveva peraltro da poco inviato una lettera al Primo Ministro Ruhakana Rugunda in cui sottolineava come le misure prese dal governo per arginare la pandemia stiano avendo producendo nefaste conseguenze principalmente sulla fasce più fragili della popolazione.

“Maleducazione radicale”

Già nel 2013 Unicef e Organizzazione mondiale della sanità avevano calcolato che in molti Paesi africani mediamente una ragazza su dieci perde le lezioni nel periodo delle mestruazioni. A grandi linee, una settimana di assenze al mese che, disponendo di assorbenti, avrebbe potuto essere evitata.

La radical rudeness è una pratica locale di contestazione che gli ugandesi inaugurarono nel 1948, attraverso un attivista storico, Semakula Mulumba, per scardinare il formalismo cordiale con cui i britannici portavano avanti le loro pratiche di “governo indiretto” (indirect rule). Mulumba era un intellettuale fieramente avverso al colonialismo. L’arcivescovo di Kampala, sperando di ammansirlo, una volta lo invitò a cena. Lui rifiutò e, per sgomberare il campo da qualsiasi fraintendimento, motivò il suo no con una missiva lunga 18 pagine, costruita in modo da offendere il mancato ospite ma, soprattutto, smascherare l’ipocrisia sottesa dalla politeness britannica.

Buon compleanno, presidente…

Nyanzi ha preso spunto da Mulumba per le sue invettive e si è premurata di pubblicare online anche i documenti storici relativi al suo modello ispiratore: tutti avrebbero potuto così inquadrare compiutamente la sua strategia d’attacco. Alla fine, però, la volitiva accademica ha decisamente superato Mulumba sul piano della sfrontatezza e della creatività letteraria.

L’anno scorso, infatti, ha festeggiato i 74 anni di Museveni pubblicando sulla sua pagina Facebook una lunga poesia. Nel testo, attraverso metafore più colorite che colorate, esprimeva rimpianto per la nascita del presidente, rilevando come l’Uganda sarebbe stata un posto migliore se il capo dello Stato, invece di venire al mondo, fosse annegato nelle maleodoranti perdite vaginali della madre.

In precedenza aveva già apostrofato il presidente come un fondoschiena, e titolando la di lui moglie (responsabile di un ministero) come un cervello vuoto, finendo una prima volta in prigione.

Volgare ma credibile

Il poema composto per il genetliaco presidenziale ha provocato il secondo arresto, un processo conclusosi con la condanna per cyber-molestie e il tentativo (a cui Nyanzi è riuscita a sottrarsi) di farla passare per pazza. Cosa che assolutamente non è.

La sua radical rudeness non è un segno di intemperanza ma un passaggio studiato a tavolino. Se si fosse limitata a contestare il presidente sul piano politico, ad esempio per le promesse disattese a proposito della fornitura di assorbenti, sarebbe stato molto più facile per il sistema metterla a tacere, facendola sparire dai radar dell’opinione pubblica internazionale. In Uganda, esprimere liberamente la propria opinione può essere infatti molto rischioso. La repressione del dissenso è diventata la regola sotto Museveni e i servizi segreti hanno creato un team con il compito preciso di intercettare gli oppositori e neutralizzarli. Ma l’escalation di volgarità messa in campo dalla nostra attivista, in un Paese ancora molto abbottonato e formalmente represso ???, non poteva passare inosservata. Infatti ha subito catalizzato l’attenzione della stampa e anche delle agenzie internazionali (come Amnesty).

D’altra parte, l’impegno di Nyanzi sul piano della lotta all’aids, del sostegno all’educazione sessuale, della difesa dei diritti Lgbt, data già da diversi anni. Ed è su queste lotte che può basare la sua credibilità. Oltre ad aprire il megafono della radical rudeness ha fatto molto, moltissimo, sul piano concreto per cambiare lo status quo.

Chi è, in questo Paese, il vero offeso?

Al processo dello scorso agosto, quello in cui le è stata comminata la condanna, Nyanzi non era presente in aula ma solo in video: una decisione della corte che l’imputata ha accolto con molta contrarietà, considerandola una limitazione del suo diritto alla difesa. Per questo ha messo in scena, in diretta, una nuova rumorosa protesta in stile Femen, il movimento femminista ucraino fondato nel 2008. Nel momento in cui veniva pronunciato il verdetto, si è sollevata la maglietta offrendo agli astanti la vista del seno.

Secondo quanto riferito da testimoni oculari, quando era apparsa la prima volta in tribunale, tre giorni dopo il suo arresto, Nyanzi, che si è sempre dichiarata non colpevole, avrebbe detto al giudice: «Le mie comunicazioni sarebbero offensive? Ma chi è veramente offeso qui? Per quanto tempo gli ugandesi resteranno in silenzio a causa della paura? Sono un’accademica, una poetessa, una scrittrice. Uso la mia scrittura metaforicamente. Ho definito il presidente un impotente, uno stupratore, una patetica coppia di natiche. È vero. Ma lui ha mentito agli elettori e sono gli ugandesi a doversi sentire offesi dal fatto di essere governati da un uomo così disonorevole. Siamo noi a essere offesi, non lui».

Se in apparenza la radical rudeness che ha portato in carcere Stella Nyanzi non è molto diversa da un qualsiasi discorso d’odio contemporaneo, i precedenti locali già citati e ricostruiti dalla storica Carol Summers permettono però di evidenziare una specificità.

A causa del loro estremismo, scrive Summers nel saggio Radical Rudeness: Ugandan Social Critiques in the 1940s, gli attivisti radicali legati a Mulumba erano talvolta dipinti come pazzi. Dal loro punto di vista, la vera follia era invece nell’opprimente dominio britannico, che da un lato colpiva al viso il popolo ugandese, dall’altra provava a stringergli le mani. Che, in altre parole, pretendeva di sottomettere la popolazione affidando a una parte di essa il lavoro sporco. Nyanzi ritrova la stessa contraddittorietà nel comportamento di Museveni, che opprime la popolazione e pretende pure di ingraziarsela. La vera follia sta lì.

L’utopia di Saramago

Se il governo non mantiene gli impegni, le persone possono organizzarsi da sole per affrontare i problemi. L’esperienza di #Pads4girlsUg lo dimostra. Concreta e reale, anche se sembra uscita dal genio creativo di un José Saramago. Il suo Saggio sulla lucidità raccontava in fondo una storia simile. Quella di un Paese i cui cittadini avevano ormai perso fiducia nella vita politica e praticavano massicciamente l’astensione elettorale. Per vendicarsi, il governo decide di sigillare la città, sospendendo tutti i servizi pubblici. I cittadini allora si organizzano e riescono a mantenere l’ordine in assenza di sistemi governativi, a fare quello che il potere non sa o non vuole fare.

E per il potere, Stella Nyanzi lo sa bene, non c’è niente di più insopportabile che scoprirsi irrilevante.

(testo di Stefania Ragusa – foto di Frederic Noy / Panos /Luz)

 

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