Tahany Shahin, verso una salute senza frontiere

di Stefania Ragusa

Sabato scorso Tahany Shahin ha lasciato Monza per andare a Milano e ritirare al Palazzo delle Stelline il meritato premio IntegrAZIONE – MigrAZIONE (nella foto qui sotto, un particolare della cerimonia). Oggi questa signora egiziana di 52 anni, vicepresidente del Centro Islamico di Monza e Brianza, impegnata sul territorio in numerose e varie azioni di solidarietà e dialogo, è stata di nuovo all’ombra della Madonnina. Questa volta per raccontare cosa ha fatto in questi anni, a fianco della LILT (Lega Italiana Lotta ai Tumori) meneghina, per migliorare l’accesso ai servizi sanitari e alla prevenzione da parte delle persone immigrate.
Come molti studi hanno evidenziato (ne abbiamo linkato uno, ce ne sono svariati altri), per ragioni abbastanza comprensibili ma che troppo spesso non vengono capite, accedere alle cure e fare prevenzione per i migranti e soprattutto le migranti è più complicato che per altre tipologie di persone.

Per questo la Lilt dieci anni fa ha avviato un progetto rivolto alle comunità straniere del territorio metropolitano. Tahany, una laurea in Cultura Araba e Islamica e in Italia da un quarto di secolo, è stata coinvolta  subito, tramite il Centro Islamico di Sesto San Giovanni. «Ho cominciato a partecipare ai primi incontri, che erano incentrati sull’alimentazione. Andavo in auto a Sesto da Monza e portavo sempre con me altre donne. Ma ho capito presto che, invece di fare su e giù, sarebbe stato meglio portare il programma anche a Monza. Abbiamo coinvolto la Casa delle Culture, che era stata aperta da poco e stava ancora pianificando le proprie attività, e le varie comunità. Programmavamo gli incontri tenendo conto delle  lingue, per consentire a tutti la partecipazione».
Nel 2010 la Lilt ha fatto partire il programma Donna Ovunque, che dava alle donne straniere l’opportunità di sottoporsi a visite gratuite di diagnosi precoce. Per favorire questo processo i medici che eseguivano i controlli dovevano essere in grado di parlare la stessa lingua delle pazienti. In dieci anni sono state complessivamente quasi 5000 le donne che hanno effettuato, presso gli ambulatori Lilt, una visita senologica, ginecologica e pap test.

Tahany era lì, a informare e incoraggiare le donne immigrate con cui entrava in contatto. Quelle del Centro Islamico ma non solo. «Abbiamo utilizzato tutti gli strumenti e le postazioni a nostra disposizione per raggiungere le persone meno informate e far decollare Donna Ovunque veramente ovunque», racconta. «L’accesso alle cure, la corretta prevenzione sono in molti casi solo una questione di informazione: se non sai che esiste un’opportunità, se non sai cosa devi fare per coglierla, è come se questa opportunità per te non ci fosse». Per alcune di queste donne la visita ginecologica e il pap test sono stati dei veri spartiacque. «Erano malate e grazie ai controlli se ne sono potute accorgere in tempo e oggi sono vive».

Un momento della conferenza stampa LILT

Per altre,  un accesso facilitato ai servizi della Lilt ha significato ridurre ansia e stress: «Stavano male ma non sapevano cosa fare. E noi abbiamo potuto aiutarle».
Se diamo un’occhiata ai numeri, possiamo renderci conto della portata complessiva dell’iniziativa Lilt:  6 progetti realizzati nell’ambito della diagnosi precoce e della sensibilizzazione, 3335 partecipanti, 4903 visite ed esami, 25 Paesi, 37 tra medici e operatori sanitari, 844 partner sul territorio tra consolati, chiese e comunità di culto, istituzioni, enti, associazioni, fondazioni, scuole… Dal 2015 ad oggi sono stati poi proposti seminari informativi in lingua e workshop sui temi della prevenzione attraverso cinque altri progetti che hanno toccato oltre 3300 persone: Prevenire per nutrire il cambiamento, Lilt parla la tua lingua, La salute si fa in rete, Salute senza frontiere e Qubì. Ad oggi – riferisce la Lilt – sono stati distribuiti oltre 100.000 materiali di comunicazione con un’erogazione complessiva di oltre 1500 ore di servizi, e il coinvolgimento di 8300 famiglie su un bacino di oltre 35.000 persone.
Come rilevato anche da un’indagine realizzata in collaborazione con la Fondazione Ismu,  le scelte logistiche e comunicative sono state azzeccate, a partire da quella di coinvolgere in modo specifico le donne  straniere come tramite con le comunità: perché più capaci di diffondere un messaggio di salute in famiglia e all’interno della propria comunità di appartenenza. Possono agire come “ambasciatrici” ,secondo il modello anglosassone Community Health Educator (Che), facilitando l’accesso e abbattendo le resistenze. Risulta infatti che il 76%  delle partecipanti ha valutato positivamente la presenza di un referente di comunità e il 72% ha ritenuto fondamentale lo svolgimento degli incontri in luoghi di appartenenza religiosa e culturale già conosciuti. In quasi la metà dei casi (45%), inoltre, le donne che hanno partecipato sono state convinte proprio da un’amica ambasciatrice. Ed è proprio questo il ruolo che Tahany Shahin ha rivestito in questi anni e che desidera mantenere: ambasciatrice per un modello di salute senza frontiere e senza passaporto.

(Stefania Ragusa)

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