«Salviamo la memoria storica di Mogadiscio»

di AFRICA

Era tra le capitali più belle d’Africa. Venticinque anni di guerra hanno accumulato macerie e desolazione. Oggi, faticosamente, Mogadiscio rinasce. Ma incompetenza e speculazione edilizia stanno per cancellarne la memoria storica. Solo la cooperazione culturale può invertire la rotta.

«… e giungemmo a Mogadiscio, città vastissima. I suoi abitanti, che sono dei ricchi mercanti, posseggono una quantità di cammelli, che sgozzano ogni giorno a centinaia, e gran quantità di ovini. Si fabbricano a Mogadiscio le stoffe senza uguali che vanno sotto il suo nome, e si esportano di lì in Egitto e altrove». Era il 1331, e questa era la prima impressione che Ibn Battuta, il Marco Polo arabo, ebbe della città abitata dai Banaadiri, il “popolo multietnico” (originario in buona parte dello Yemen e con apporti arabi, etiopi e altri), snodo commerciale e culturale tra Africa, Medio Oriente e India e Cina.

Città di moschee

Al viaggiatore che veniva dal mare, Mogadiscio appariva come una città vivace e ben curata, dominata da una trentina di moschee – con pavimenti, portali e mihrab (le nicchie orientate verso la Mecca) finemente decorati. Non solo i singoli edifici religiosi o le case signorili, ma tutto il tessuto urbanistico – come le vie strette, disegnate per creare ambienti ombreggiati – e soluzioni come quelle adottate per la climatizzazione degli edifici coniugavano il fascino estetico alla migliore tecnologia possibile. I boordi, per esempio, cioè i tronchi di mangrovia, forma spesso irregolare, abilmente riutilizzati divenivano architravi e pilastri capaci di tenere in piedi case a più piani.

Ma che ne è, oggi, del prezioso patrimonio architettonico di una città preda della distruzione dal 1991, anno della caduta del dittatore Siad Barre? Le immagini che pubblichiamo in queste pagine ci mostrano macerie, più che bellezza. Ha senso occuparsi di ruderi, restauri e conservazione quando sembra che tutto possa di nuovo volare in pezzi?

Eppure. Negli ultimi anni si sono accese speranze, anche se ciclicamente compromesse da episodi orrendi – la strage di metà ottobre (512 morti) è la più grave mai perpetrata dai jihadisti –, e tanti somali sono tornati per rimboccarsi le maniche. Tra loro c’è Nuredin Hagi Scikei – 60 anni, una laurea in ingegneria idraulica all’Università di Bologna e un lungo tempo vissuto in Italia –, che non si dà pace per i rischi di ulteriore devastazione del patrimonio culturale della sua città. «Bisogna intervenire per salvare ciò che rimane del centro storico, con le sue opere medievali e quelle del periodo italiano – avverte –. Durante gli anni della barbarie sono avvenute distruzioni immani, come nel caso della moschea di Arba’a Rukun, risalente al 1269, e di molte opere d’epoca coloniale come il vecchio Parlamento, le scuole italiane e tante altre».

La Turchia – che in Somalia è sempre più attiva, per esempio nel rifacimento del porto della capitale – assicura certi lavori di recupero, come nei casi della suddetta moschea e della torre Abdulaziz, un emblema della città, ma Nuredin lamenta che «i restauri sono avvenuti senza l’intervento di archeologi capaci e, peggio ancora, i subappalti sono stati concessi a costruttori locali senza esperienza in fatto di edifici antichi».

Distruzione e speculazione

Alle ingiurie del tempo, all’incuria e poi alle distruzioni della guerra, si aggiungono pertanto gli interventi incompetenti, quando non veri stravolgimenti. È il caso dell’albergo Croce del Sud, venendo all’epoca coloniale. Disegnato da Carlo Enrico Rava, fu un modello di architettura littoria a latitudine equatoriale, peraltro ispirato ai saraha, i tradizionali palazzi del Benadir, la regione di Mogadiscio. Oggi è uno sfavillante centro commerciale, il Mogadishu Mall, opera di un’impresa indiana basata in Tanzania.

La pace, attraendo investimenti e voglia di ricostruzione, può far danni quanto la guerra, dal punto di vista della memoria urbanistica, storica e culturale. Un processo che avanza a passi veloci. «Gli speculatori – Hagi Scikei lo osserva con i suoi occhi – cercano di accaparrarsi nuovi lotti spazzando via le costruzioni storiche».

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Nuredin Hagi Scikey, “Exploring the Old Stone Town of Mogadishu”, Cambridge Scholars Publishing, 2017

Che fare? L’ingegnere – che al tema ha dedicato un libro fresco di stampa – invoca l’intervento dell’Italia perché si crei qualcosa di «simile all’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro, che è un unico organismo in cui un team di esperti (storici, architetti, archeologi e altri tecnici qualificati) svolgono insieme le ricerche, la formazione degli operatori e un’attività̀ sistematica di restauro».

Nuredin ritiene indispensabile un sostegno di almeno dieci anni all’istituto che sogna per la sua città. «Qui le maestranze qualificate sono poche. Negli ultimi vent’anni molte competenze sono andate perse».

Gesto riparatore

Ma perché rivolgersi all’ex potenza coloniale? «Il patrimonio di Mogadiscio e di altre città costiere non comprende solo le costruzioni medievali ma anche quelle del periodo coloniale – argomenta l’ingegnere –. L’Italia ha insomma motivazioni che nessun altro Paese può avere, inoltre vanta numerose eccellenze nel campo del restauro. Ma Roma dovrebbe prendere l’iniziativa e proporsi al governo di Mogadiscio, senza aspettare una richiesta dei politici somali». I quali sono in tutt’altre faccende affaccendati, e non da oggi. Tra i 193 Paesi che hanno ratificato la Convenzione per il patrimonio mondiale dell’Unesco (1972), della Somalia non v’è traccia…

Aggiungiamo che un intervento italiano sarebbe anche un atto riparatore. Se il fascismo ha lasciato architetture che andrebbero preservate, le aveva però create operando devastazioni a sua volta. La demolizione di Shingaani, uno dei due nuclei storici della città (l’altro è Hamar Weyne), cominciò ben prima del 1991… «Nel 1930 – scrive Nuredin nel suo libro – le autorità coloniali italiani abbatterono un’ampia area del distretto di Shingaani per aprirvi una strada. E la strada passò su un cimitero dei Banaadiri, il secondo per importanza». Fu una profanazione, ma anche una perdita irrimediabile di testimonianze lapidee con iscrizioni di rilevanza storiografica. Lo stesso dicasi per Villa Somalia, per il Teatro Nazionale…

Mettere le competenze italiane a servizio di un progetto di questo calibro, in un quadro di cooperazione culturale, sarebbe solo la cosa giusta da farsi.

(Pier Maria Mazzola)

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