Mali, le ragioni e gli effetti del golpe

di Marco Trovato

Il presidente del Mali Ibrahim Boubacar Keita, arrestato nella giornata di ieri da militari ammutinati, ha rassegnato le sue dimissioni. In un video diffuso dalla tv di stato ORTM, l’ormai ex capo di Stato, soprannominato IBK, 75 anni, al potere dal 2013, apparso davanti alle telecamere in buone condizioni, con il viso semicoperto da maschera anti-covid, ha dichiarato di avere accettato di farsi da parte per “non voler spargimenti di sangue”. L’annuncio è giunto al termine di una giornata caotica, quella di ieri, segnata dalla rivolta di un numero imprecisato di soldati del campo militare di Soundiata-Keïta a Kati, che si trova a 15 chilometri a nord di Bamako, determinati a ribaltare e conquistare al potere.

Il presidente IBK rassegna le dimissioni in televisione

Il governo e l’assemblea (il parlamento) sono stati ufficialmente sciolti. E’ stato dichiarato il coprifuoco, le strade principali sono presidiate di mezzi militari.

I cinque principali ufficiali che hanno guidato il golpe (tra i quali, i colonnelli Sadio Camara e Malick Diaw) hanno divulgato un video-comunicato per spiegare alla popolazione – per bocca del colonnello maggiore Ismael Wague, portavoce degli insorti – le ragioni del loro intervento di forza, ritenuto “necessario per ripristinare l’ordine e la sicurezza”. I golpisti hanno assicurato di “non volere restare al potere”, ma di voler “traghettare il Paese verso elezioni generali che possano esprimere una nuova leadership politica e istituzioni forti capaci di affrontare le tante sfide quotidiane, ripristinando il rapporto di fiducia tra governanti e governati”.

Gli ufficiali golpisti leggono il comunicato alla tv di stato

I militari hanno fatto appello alla società civile e ai movimenti socio-politici richiamando tutti alla massima responsabilità affinché questa delicata fase di transizione avvenga senza problemi.

Le immagini trasmesse dalle televisioni locali e dai social network hanno mostrato scene di giubilo e di festeggiamenti nelle strade della capitale Bamako, dove i militari sono stati salutati come liberatori. I commenti dei manifestanti, che ieri avevano assediato la casa dell’ex presidente, per esprimere il loro appoggio ai soldati ribelli, sono stati molto duri nei confronti degli ex governanti, accusato di “avere diffuso la corruzione”, “soppresso nel sangue l’opposizione”, “avere conquistato il potere e i privilegi con l’aiuto della Francia”, ex forza coloniale che in Africa occidentale mantiene una forte influenza politica e militare.

Ieri, il presidente francese, Emmanuel Macron, aveva discusso della crisi scoppiata a Bamako con i suoi omologhi nigerino, Mahamadou Issoufou, l’ivoriano Alassane Ouattara e il senegalese Macky Sall, esprimendo “il suo pieno sostegno agli sforzi di mediazione in corso degli Stati dall’Africa occidentale”.

Il golpe è stato duramente condannato dal Presidente della Commissione dell’Unione Africana, Moussa Faki Mahamat, che ha sollecitato l’intervento della comunità internazionale per una veloce soluzione della crisi politica in Mali. La CEDEAO (La Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale che comprende lega quindici stati dell’Africa occidentale, tra cui il Mali) ha invitato i militari a ripristinare l’ordine costituzionale. E l’ambasciatore statunitense nella regione, J.Peter Pham, in un tweet ha dichiarato che “Gli Usa si opporranno a qualsiasi cambiamento del governo anti-costituzionale portato avanti da manifestanti o forze di sicurezza.” In serata è stato indetto un Consiglio straordinario dell’Onu per discutere della crisi in atto.

soldati festeggiati dalla popolazione a Bamako

E’ altamente improbabile tuttavia che la comunità internazionale interverrà direttamente per ripristinare il potere costituzionale, anche perché – come già spiegato – il golpe militare sembra avere l’appoggio della gran parte della popolazione civile, prostrata da una crisi economica e sociale che si trascina da anni e fortemente critica nei confronti dei politici che si sono dimostrati incapaci di promuovere assicurare stabilità e sicurezza, rilanciare lo sviluppo del Paese.

Al momento non si registrano reazioni e commenti sul golpe da parte dell’imam Mahmoud Dicko, personaggio carismatico e influente della società maliana, molto amato dalla popolazione, protagonista nelle scorse settimane di un braccio di ferro contro i governanti. Leader religioso appartenente alla corrente rigorista del wahhabismo saudita, Dicko aveva mobilitato migliaia di manifestanti, offrendosi poi come mediatore per tentare di placare la tensione della piazza. L’imam aveva denunciato gli errori dei politici, le loro derive, la cattiva gestione, le ingiustizie e le sofferenze della popolazione. Ex sostenitore dell’attuale presidente Ibrahim Boubacar Keita (comunemente soprannominato Ibk), il capo religioso ha raggiunto lo schieramento dei delusi, diventando volto e parola del “Movimento 5 giugno – Raggruppamento delle forze patriottiche” (M5-Rfp), piattaforma eteroclita raggruppatasi nelle manifestazioni di piazza innescate a partire dal 5 giugno scorso.

Per lungo tempo il Mali ha rappresentato un’oasi di pace, esempio virtuoso di democrazia e stabilità, nel cuore del Sahel. Poi nella primavera del 2012 il magico equilibrio si è spezzato, il Paese è precipitato nel caos e da quel momento non si è più ripreso. A innescare la crisi è stata la rivolta dei ribelli Tuareg nel nord della nazione, che da decenni rivendicavano maggiore autonomia e considerazione da parte dei governanti di Bamako, e il successivo un colpo di stato (partito sempre dal campo militare di Kati) che portò alla destituzione del presidente Amadou Toumani Touré. Sotto la pressione internazionale, la giunta militare finì per cedere il potere alle autorità civili a interim fino all’elezione nel 2013 di Ibrahim Boubacar Keita.

Il malgoverno, la diffusa corruzione (nella politica e nell’esercito), lotte intestine dentro l’apparato militare, hanno favorito la progressiva disgregazione del Paese e la diffusione di gruppi islamisti armati, che hanno occupato ampie regioni settentrionali. Tre quarti del territorio nazionale sono tutt’oggi considerati insicuri a causa degli assalti jihadisti infiltrati nella società, che hanno acuito le tensioni già presenti tra pastori Peul e contadini Dogon e Bambara. Neppure l’intervento militare internazionale lanciato dalla Francia nel gennaio 2013, e tuttora in corso, è riuscito a ripristinare la sicurezza. Violenze e terrore hanno preso piede laddove un tempo regnava la pace. Sono spariti da tempo i turisti che a migliaia visitavano la grande moschea di fango di Djenné, il corso del fiume Niger, la spettacolare Falesia di Bandiagara. La crisi economica ha messo in ginocchio la popolazione, che è stanca e sfiduciata. E la pandemia di coronavirus ha contribuito ad acuire l’isolamento internazionale.

Quello che è accaduto in queste ore a Bamako è solo una tappa della parabola impietosa di un Paese sprofondato in otto anni sull’orlo del baratro. Gli eventi dei prossimi giorni, delle prossime settimane, ci diranno se il Mali saprà rialzarsi dalle sue macerie.

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