Le metropoli africane, fra retaggi coloniali e innovazione

di AFRICA
Lagos

Ci sono città in Africa? Addirittura grattacieli? Le reazioni innocenti che diverse persone hanno nello scoprire il mio “mestiere” di urbanista specializzato sugli insediamenti nel continente africano testimoniano quanto il mito di un’Africa rurale, fatta di piccoli villaggi e in cui le città sono il frutto della “civilizzazione” europea fatichi ancora ad essere scalfito. Ovviamente sono moltissimi gli esempi di civiltà urbane a sud del Sahara, da Kumasi ad Aksum passando per Ife, Timbuctù o Great Zimbabwe, eppure quante sono le capitali del continente africano che hanno un’origine antecedente al colonialismo o alle prime esplorazioni commerciali arabe o portoghesi? Poco più di una decina. Un dato che rappresenta un problema culturale non banale: anziché essere il cuore ideale di una collettività questi centri urbani sono la testimonianza storica e l’espressione fisica di un potere alieno, non inclusivo e quasi sempre segregante.

Le città occidentali si sviluppano attorno a fulcri simbolici di un passato condiviso: monumenti, templi e luoghi pubblici in cui la comunità si riconosce e ritrova una propria identità e le testimonianze della propria storia collettiva. Simboli e identità che ovviamente mancano a quelle capitali nate come centri di potere estranei e basati su dinamiche di sfruttamento. All’alba dell’indipendenza gli Stati africani hanno ereditato queste “macchine” mostruose non pensate in funzione dei cittadini ma semplicemente studiate per dirigere l’economia coloniale e offrire ai funzionari della madrepatria uno spaccato di Europa ad altre latitudini. Non stupisce quindi che il rapporto con la città di molti politici e intellettuali dell’epoca delle indipendenze fosse quanto meno controverso: da un lato la speranza di un futuro radioso guidato proprio dalla modernizzazione e dall’urbanesimo, dall’altro la visione della città come luogo di corruzione e perdizione.

«Siamo contrari all’idea di una capitale!», tuonava Amílcar Cabral, secondo cui i palazzi del potere erano inutili orpelli espressione fisica di un privilegio, e che arrivava a teorizzare una via radicalmente alternativa: «Perché non disperdiamo i ministeri nella foresta?» Anni dopo (leggenda o realtà?) si dice che Thomas Sankara costringesse alcuni funzionari stranieri in visita ufficiale a recarsi nei villaggi della brousse per incontrare così “il Paese reale”. Nello stesso periodo il sociologo camerunese Jean Marc Ela chiudeva il cerchio scrivendo esplicitamente: «Nous sommes des étrangers dans notres villes»: siamo stranieri nelle nostre città. Eppure, se questa percezione di estraneità è innegabile, a sessant’anni dalle indipendenze la resilienza e la capacità di innovare e reinventare hanno permesso in molti casi una “riappropriazione” degli spazi urbani da parte dei cittadini. Molte grandi città del continente sono state progressivamente “africanizzate”, non tanto attraverso monumenti, edifici pubblici o stili architettonici tipici quanto nella quotidianità, partendo da azioni ordinarie come abitare, lavorare, commerciare, incontrarsi. Attività diverse che nelle città “occidentali” hanno luoghi specifici spesso ben distinti e che invece nelle città africane, per mancanza di spazio, per necessità o per tradizione si sono sovrapposte, invadendo ognuna gli spazi delle altre. Lo spazio “pubblico” e in particolar modo le strade diventano quindi il cuore pulsante in cui si concentra la vita quotidiana: flessibilità, leggerezza e capacità di adattamento sono i cardini di questa trasformazione spontanea e incontrollata. Si pensi ad esempio ai mercati di strada, che possono essere allestiti o smantellati nel giro di pochi minuti occupando e deformando spazi urbani concepiti per essere rigidi e regolamentati. O ai moltissimi quartieri informali che punteggiano le metropoli del continente: organismi flessibili ed effimeri che si adattano e si insinuano negli interstizi della città ufficiale modificandone continuamente forma e gerarchie. Azioni dinamiche di riappropriazione degli spazi che rappresentano un modo totalmente diverso e non convenzionale di concepire la città, e che potrebbero essere interpretate come esempi di una via africana all’urbanistica.

(Federico Monica)

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