Il wax è trendy, ma upcycled è meglio. Il “caso” Gambela Market

di Stefania Ragusa

Upcycling è un termine spesso usato come sinonimo di riciclo ma che, in realtà, indica qualcosa di diverso sul piano concettuale e su quello pratico. Upcycling vuol dire recuperare e reinterpretare un oggetto o un  capo di vestiario esistente accrescendone il “valore” grazie all’intervento creativo. È quello che fa Amah Ayiv, di cui abbiamo parlato quest’anno su Africa di maggio-giugno, ed è diventato un concetto chiave per le produzioni di moda ecosostenibili made in Africa o di ispirazione africana. Esemplare, da questo punto di vista, il “caso” di Gambela Market, etichetta franco-congolese che ha debuttato pochi mesi fa specializzandosi in streetwear. Si tratta di un progetto che nasce e si sviluppa in Francia ma che potrebbe (e meriterebbe di) essere replicato anche in Italia.

Gambela Market combina due istanze “ambientali” assai contemporanee: il recupero degli abiti dismessi in procinto di diventare spazzatura e la “rivalorizzazione” degli scarti di wax, il celebre cotone stampato a cera con riserva che, pur non avendo affatto origini africane, è diventata un vessillo dell’africanità. «Il wax, che in questi ultimi anni ha conosciuto una grande popolarità internazionale, è venduto in grandi pezzature (da 6 a 12 yarde di tessuto) e gli stilisti, nella stragrande maggioranza dei casi, lo usano non per realizzare un proprio modello ma per riprodurne uno portato dal cliente. Quello che resta non serve più e viene buttato via», spiega Aude Renoud Tsasa, fondatrice del brand. «Uno spreco inaccettabile: la produzione del tessile consuma energia e risorse, e a questo si deve aggiungere la Co2 prodotta dai lunghi viaggi che le stoffe fanno per raggiungere i designer. Io, che sono sempre stata un’amante del wax e avevo l’abitudine di fare realizzare i mei abiti nel quartiere di Château Rouge a Parigi, mi sono detta che era arrivato il momento di sviluppare un progetto in grado di mettere insieme wax e sostenibilità». Renoud Tsasa, laureata alla Business School, specializzata in marketing, ha lasciato un incarico prestigioso per lanciarsi in questa avventura.

Quanto è grave il problema della sovrapproduzione di abbigliamento?
«Secondo lEnvironmental Protection Agency, i rifiuti tessili sono aumentati dell’811% dagli anni ’60 ad oggi. La maggior parte finisce nella spazzatura, senza essere riciclata. Siamo passati dal 1,7 milioni di tonnellate di rifiuti tessili nel 1960 agli oltre 16 milioni del 2015 e ai tanti di più di oggi. Ogni anno in Francia vengono immesse sul mercato non meno di 700.000 tonnellate di tessuti, scarpe o biancheria per la casa e, come possiamo leggere in un rapporto pubblicato dall’Agenzia francese Ademe, solo un terzo viene recuperato dopo l’uso. Il 60% degli indumenti finisce in una discarica o in un inceneritore nello stesso anno in cui viene prodotto e due terzi dei francesi affermano di aver acquistato abiti che non hanno mai indossato e non indosseranno mai. In media ogni anno ciascun francese getta 12 kg di vestiti. Questi dati, incredibili, evidenziano la necessità di ripensare a tutti i livelli gli stili di consumo e di rivolgersi all’upcycling: trasformare quel che non si usa più, evitando ogni spreco».

I capi di Gambela Market riflettono questa filosofia anche in piccolo, per esempio nel recupero della bigiotteria e degli accessori. Attraverso quali canali vengono venduti?

«Principalmente sul nostro sito web ma allestiamo regolarmente negozi pop-up e partecipiamo alle fiere e ai mercati. È importante incontrare le persone per spiegare il nostro approccio. Il mio obiettivo è accorciare il più possibile il circuito di distribuzione ed essere vicini al consumatore. È anche un modo per limitare i passaggi e dunque i rincari. La sostenibilità deve comunque essere accessibile».

State valutando la possibilità di utilizzare in futuro abiti di seconda mano provenienti dal mercato africano?
«Per il momento ci stiamo concentrando solo su capi invenduti, abiti usati e scarti di tessuto che troviamo in Francia. La nostra produzione si fa qui e non vogliamo aumentare l’impronta di carbonio importando materie prime da altri paesi. Il discorso cambierà se e quando svilupperemo la produzione a livello locale. Ci stiamo pensando e questo potrebbe essere uno dei nostri prossimi progetti: sviluppare i nostri prodotti nella Repubblica Democratica del Congo inizialmente acquistando le nostre materie prime localmente e producendo in loco, sempre sul principio dell’upcycling ovviamente».

Lavorando con gli scarti non è facile realizzare collezioni permanenti
«Non lo è, infatti. Noi ci siamo riusciti puntando sulle t-shirt e le felpe (in cotone biologico, prodotti appositamente da alcuni fornitori selezionati. Le personalizziamo con i nostri scarti di wax: su alcuni capi si trovano dellle tasche, su altri un patchwork formato da 9 scampoli.
Per le capsule collection, invece, lavoriamo con capi di stock in eccedenza o prodotti di seconda mano. La collezione di giacche denim ha questa provenienza».

Chi compra da Gambela Market?
«I nostri acquirenti hanno profili diversificati, ma sono principalmente giovani e metropolitani, amanti dei viaggi e curiosi del mondo. quindi due principali categorie di acquirenti in questa fase. Poi c’è un gruppo nutrito di afrodiscendenti che, attraverso la scelta di questi capi rivendica la propria biculturalità, la doppia appartenenza. Oggi si tratta principalmente di acquirenti che vivono in Francia e in Europa, ma vediamo un forte interesse da parte degli Stati Uniti per i nostri prodotti».


Quante persone lavorano con lei?
«In realtà, fino a questo momento, Gambela Market è stato un progetto a conduzione famigliare.
L’obiettivo a lungo termine è quello di creare un laboratorio di abbigliamento che dia lavoro a persone in che stanno seguendo un percorso di inserimento e integrazione sociale, formandole e consentendo loro di avere un’esperienza professionale su cui possono capitalizzare».

Perché il wax e perché l’Africa?
«La risposta è abbastanza semplice e legata al corso della mia vita. Il continente africano mi ha sempre affascinato, ho avuto anche la possibilità di vivere per 2 anni a Gibuti da bambina. Ho sempre viaggiato molto e mi è piaciuto scoprire nuove culture. E da più di 10 anni ormai wax e Africa fanno parte della mia quotidianità: mio marito è congolese e stiamo crescendo i nostri figli con una doppia cultura. Ho scelto di chiamare il brand Gambela Market (che è il nome di un famoso mercato di Kinshasa) per sottolineare questo legame e il potenziale creatio delle mescolanze».

(Stefania Ragusa)

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