Il continente ritratto nei documentari dell’Africa subsahariana

di claudia

di Annamaria Gallone

Oggi vi portiamo alla scoperta del documentario nell’Africa sub sahariana dove, fin dall’inizio, i più grandi registi ne hanno realizzato diversi, a cominciare dal decano Sembene Ousmane, ma anche Idrissa Ouégraogo, Mahamat Saleh Haroun e molti altri, per poi soffermarsi sulle opere più recenti.

Secondo il documentarista Jean-Louis Comolli, filmare la realtà è una costruzione che implica creazione, immaginazione e finzione. Per diventare visibile, la realtà ha bisogno del cinema. Eppure il documentario è stato a lungo sottovalutato come genere cinematografico e solo recentemente è stato rivalutato sia nei festival che nelle sale cinematografiche.  

Nel FESCAAAL (Festival di Cinema Africano, d’Asia e America Latina) da anni sono stati inseriti i documentari nella stessa sezione dei film di fiction in competizione e spesso sono risultati vincitori.

Oggi vi parlo unicamente del documentario nell’Africa sub sahariana dove, fin dall’inizio, i più grandi registi hanno realizzato documentari, a cominciare dal decano Sembene Ousmane che ha dato inizio a uno dei filoni durati fino ad oggi, quello della storia troppo a lungo negata perché, come dice giustamente Jean Marie Teno, nelle scuole si insegnava la storia dei «nostri antenati i Galli », girando L’Empire songhai  (1963) che doveva essere un’opera epica e purtroppo oggi è andato perduto.

Un altro grandissimo regista, IDRISSA OUÉGRAOGO, oltre a questo filone, ha inaugurato un altro aspetto della cultura, quello dell’ artigianato, con Les Écuelles, ambientato in un villaggio della campagna burkinabé, filmato ricorrendo a quella orizzontalità di sguardo che sarà uno dei segni profondi e distintivi di tutta l’opera del regista. Ouédraogo segue con un’attenzione quasi etnografica la lavorazione delle scodelle scolpite nel legno in tutte le fasi necessarie per portare a compimento un lavoro artigianale. Il regista ha sviluppato nei primi anni di carriera uno stile caratterizzato da un forte realismo sociale.

Nei suoi primissimi cortometraggi e film documentari Poko (1981), Les Ecuelles (1983)Ouagadougou, Ouaga deux roues (1984) e Issa le tisserand (1984)Ouédraogo documenta la realtà del suo ambiente senza quasi intervenire, avvicinandoci ai personaggi “in una danza di immagini che si avvicina ai personaggi senza volerne svelare il mistero attraverso l’aggiunta di una narrazione extra-diagetica, al punto da produrre documenti dal ricco valore etnografico e antropologico (Pfaff, 1992). Les Écuelles è il secondo cortometraggio realizzato da Idrissa Ouédraogo, ma è il suo primo film ad aver avuto adeguata visibilità. È stato presentato sia singolarmente sia come parte del lungometraggio a episodi De Ouaga `Douala en passant par… Paris (1987), curiosa operazione distributiva che ha unito in un unico film tre corti (gli altri due sono del camerunese Jean-Marie Teno: Hommage, (1984),Fièvre jaune-Taximan, (1985) collegati da un episodio di raccordo.

TENO, ha fatto scelte estremamente originali e per queste scelte ha un posto d’onore nel panorama della cinematografia africana, quale principale documentarista. I suoi film sono stati programmati e premiati nei festival di tutto il mondo. Libertà, sperimentazione, spontaneità e ibridazione caratterizzeranno il suo cinema. Un titolo come Afrique je te plumerai (Africa io ti spennerò) del1992 parla da solo: con amara ironia il regista sceglie come sottofondo la canzone popolare Aluette. “Aluette je te plumerai, je te plumerai la tête…

Un attacco ancora più diretto viene scelto per Le malentedu colonial (Il malinteso coloniale) del 2004, Teno esplora il complesso e problematico rapporto tra l’Europa e il continente africano attraverso la storia dei missionari e dei coloni europei in Africa, mostrando attraverso documenti storici come il colonialismo abbia distrutto le credenze e le strutture sociali africane sostituendole con quelle europee come unica soluzione accettabile per la modernizzazione.

Ci spostiamo in CHAD per parlare di MAHAMAT SALEH HAROUN, che, oltre ai suoi capolavori di fiction premiati nei più importanti festival tradizionali, ha girato diversi documentari legati al suo Paese d’origine del quale registra con amarezza i cambiamenti negativi: Bye Bye Africa (1999), Hissein Habré, une tragédie tchadienne(2016)Bord’ Africa (1995) Sotigui Kouyaté, un griot moderne  (1997) un bellissimo ritratto di un grande attore africano e  Kaala  (2005). I documentaristi spesso si battono per salvare la memoria di tragedie che hanno lacerato i Paesi Africani, come fa SAMBA FELIX NDIAYES in Rwanda pour mémoires (2000).

Il massacro di Tutsi e Hutu avvenuto tra l’aprile e il luglio del 1994 ha provocato un milione di morti in Ruanda. Su iniziativa di Fest’Africa, una dozzina di scrittori africani si sono incontrati a Kigali, quattro anni dopo il genocidio, rompendo così il silenzio in cui si erano murati gli intellettuali africani. Nel maggio 2000, in occasione della pubblicazione di libri ispirati al genocidio, scrittori, intellettuali, artisti africani e non, si sono incontrati in Ruanda per raccontare le loro esperienze. Questo film è un’ode alla vita. E quindi un atto d’accusa nei confronti di chi usa la morte per manipolare i vivi. 

L’Europa sembra preferire chiudere gli occhi sul tema di tragica attualità dell’ EMIGRAZIONE. Come si fa a rendere visibile una crisi del genere e a sensibilizzare l’opinione pubblica? Come si documenta una crisi umanitaria? Documentare significa andare dalle persone, in questo caso dai migranti che cercano di attraversare il muro del Mediterraneo. Questo richiede un forte coinvolgimento personale, il più vicino possibile alle persone, come fa KARIM SAYAD con Babor Casanova, che parla del passato, dei giovani algerini che sognano di partire, e Mon Cousin Anglais, che tratta di ciò che accade dopo che si sono stabiliti nel Nord. E poi c’è l’emergenza, i resoconti, ma pochi film documentano il “durante”, cioè il momento decisivo del viaggio, la paura che è sempre presente. Il “quando” è molto importante.

C’è un prima, un durante e un dopo. Quello che ha fatto DAGMAWI YIMER nel suo film Soltanto il mare. Oggi purtroppo siamo talmente abituati alle immagini sempre ugualmente tragiche che ci propinano i media ogni giorno, il numero degli sbarchi, il numero dei dispersi e dei cadaveri ritrovati, che ci abbiamo quasi fatto l’abitudine, ma le testimonianze dei protagonisti sono le più importanti.

Una tematica sulla quale possiamo trovare documentari interessanti, è quella SOCIALE. Se arriviamo alle opere più recenti in Zinder (2022), la regista nigeriana AÏCHA MACKYI si è interessata ai gruppi giovanili del quartiere periferico di Kara-Kara, nato come ghetto per lebbrosi e malati, oggi casa di un vasto numero di giovani totalmente privi di istruzione e di prospettive per il futuro. I primi piani delle cicatrici testimoniano la violenza, ma con il suo tono sorprendentemente pieno di speranza, Zinder mostra che qui la vita non è tutto. Le pose difficili, i momenti domestici, i pericolosi viaggi di contrabbando, le storie personali e le scene nel quartiere a luci rosse e in prigione si uniscono in un’esplorazione sincera che sfugge agli stereotipi.

In Noi, studenti! di RAFIKI FARIALA della Repubblica Centrafricana, il regista filma se stesso e i suoi amici, tutti studenti di economia all’Università di Bangui, catturando un campione inedito della vita quotidiana in questo lontano Paese africano. I giovani si esprimono con sincerità davanti alla telecamera, coinvolgendo umorismo, emozioni e privacy. Dopo le lezioni, il gruppo si riunisce fuori dall’università o nel fatiscente ostello degli studenti per scambiare idee e preoccupazioni sul futuro. Questo è il primo documentario sull’ambiente universitario africano visto dall’interno, da una prospettiva condivisa.

Le spectre de Boko Haram di CYRIELLE RANGOU, nella foto in alto. (2023 ) è una testimonianza attuale di grande impatto emotivo.

Dal 2014, l’organizzazione terroristica Boko Haram compie attacchi contro villaggi e persone nell’estremo nord del Camerun. Oggi, questa costante minaccia di violenza si intreccia con l’esistenza quotidiana.

Nel suo film d’esordio profondamente toccante, Cyrielle Raingou segue un gruppo di bambini che stanno forgiando il proprio mondo in mezzo ai pericoli del conflitto armato. Incontriamo Falta, precoce, studiosa e laboriosa, desiderosa di superare la morte del padre in un attacco terroristico. Il suo compagno di classe Ibrahim e il fratello maggiore Mohamad lottano per bilanciare l’energia della loro infanzia con un passato traumatico che li allontana dalla loro innocenza a otto e undici anni.

Raingou, proveniente dalla stessa regione del nord, si avvicina ai suoi giovani soggetti con un’osservazione delicata e discreta, lasciando che siano loro a dettare la realtà del loro ambiente attraverso le sue parole, i suoi movimenti e le sue prospettive. Il risultato è uno studio distinto e profondo dei contrasti di una zona di guerra: speranza e disperazione, innocenza e terrorismo, presente e futuro, influenza occidentale e cultura tradizionale.

Mentre i bambini si preparano per andare a scuola, in lontananza risuonano degli spari. Nel cortile della scuola, tra partite di calcio e salti, i militari pattugliano i confini. Ma Raingou si aggrappa alle risate e all’innocenza dei giochi dei bambini, che vanno ben oltre la guerra.

Le registe donne che fino a tempi non lontani erano destinate unicamente a mestieri del cinema, come attrici, montatrici o sceneggiatrici, mentre sempre più spesso ormai passano dietro la camera e comunicano attraverso il loro sguardo, spesso più introspettivo e intimo di quello maschile.

Da sempre io personalmente preferisco girare documentari perché penso che la realtà è spesso più ispiratrice e più incredibile della fiction.

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