Come e perché cancellare gli accordi con la Libia

di Stefania Ragusa

Cancellare gli accordi con la Libia, quegli accordi che hanno reso possibile, per esempio, la morte di tre migranti e il ferimento di altri quattro, ad opera della Guardia Costiera del paese nordafricano, pochi giorni fa; quegli accordi che hanno reso possibili molti altri orrori.
La campagna Io accolgo ha lanciato un’azione di mailbombing rivolta al Presidente del Consiglio, al Ministro dell’Interno e a quello degli Esteri affinché il nostro Paese interrompa questo nefasto patto di collaborazione. Noi qui vi proponiamo la ricostruzione dei passaggi salienti che hanno portato alla situazione attuale.
La vicenda ha inizio negli anni Novanta, quando il regime di Gheddafi si andava aprendo e l’UE provava a riallacciare relazioni col grande e ricco paese nordafricano. Gli interessi maggiori allora erano – ma in parte lo sono ancora – legati alle immense risorse del sottosuolo e alle opportunità di investimento per le aziende italiane (e anche francesi) nella realizzazione di infrastrutture. Il nuovo corso era indotto in teoria anche dalla nobile aspirazione a “riparare ai danni coloniali”. ricostruendo laddove negli anni precedenti tanto era stato distrutto. Già allora negli accordi – mai transitati in Parlamento – si parlava di sicurezza e di controllo delle frontiere.
Nel 2004, quando divennero più corposi i tentativi di fuga verso l’Europa da parte di africani subsahariani che in Libia si erano fermati a lavorare, gli accordi fra governi per interrompere a ogni costo la mobilià divennero più stretti, tanto da giungere agli illegali e successivamente sanzionati respingimenti collettivi. La firma di Silvio Berlusconi, nel 2009 trasformò il 30 settembre da “giornata della vendetta” in ricordo delle vittime del colonialismo in “giornata dell’amicizia”, suggerendo un cambio di prospettiva in verità un po’ posticcio.
L’impegno assunto da Gheddafi era in sostanza quello di fermare le persone, con il supporto militare italiano, in cambio di 5 mld di dollari (250 milioni l’anno) che ufficialmente andavano a riparare i danni coloniali. Negli ultimi due anni di potere del Colonnello si alternarono fasi in cui gli accordi venivano rispettati da entrambe le parti, ad altre in cui Tripoli esercitava il potere di ricatto per ottenere maggior sostegno economico e politico. La fine del regime nel 2011 portò il Paese definitivamente nel caos.
Per numerose ragioni che vanno dalle strategie di politica internazionale alla crisi economica che ha impoverito ancor di più i paesi di provenienza e per il ruolo assunto in maniera spesso ambivalente dell’UE, ci sono state impennate negli arrivi in Italia (2011 e 2016) seguite da momenti di calma. Forse la sola fase realmente governata è stata quella caratterizzata  dall’operazione Mare Nostrum messa in campo dalla sola Marina Militare italiana nel 2014, a seguito dei tragici naufragi dell’ottobre del 2013, operazione che portò i mezzi italiani a prestare soccorso anche nelle acque vicine alle coste libiche. Concluso Mare Nostrum, il 2015 fu un anno tragico con un bilancio micidiale di vittime. L’anno dopo entrarono in gioco alcune ong con navi umanitarie per sopperire all’assenza di intervento europeo. Ma il loro intervento riguardò circa il 28% delle persone salvate, degli altri si occuparono navi mercantili, della guardia costiera italiana e di agenzie europee come Frontex finanziate per fermare i fuggitivi.
Tutto quanto detto serve a fornire i presupposti per comprendere il presente.
A febbraio 2017, il ministro dell’Interno Marco Minniti firmò il cosiddetto Mou (Memorandum of Understanding) con uno dei governi libici, quello che di fatto controlla parte della Tripolitania (la regione nord occidentale del Paese) e attraverso cui l’Italia si impegnava a sostenere la Guardia costiera libica nella “lotta ai trafficanti di esseri umani” con mezzi navali, addestramento di personale, pattuglie miste eccetera. Quell’area di Mediterraneo è divisa in cosiddette “zone SAR” (ossia di ricerca e salvataggio): una di competenza italiana, una maltese, una tunisina e – la novità – una libica. L’accordo è stato rinnovato preventivamente, lo scorso novembre, con la proposta di modifiche che “forse” si realizzeranno, e definitivamente approvato alla sua scadenza a febbraio (valeva 3 anni). Giorni fa Camera e Senato hanno votato, non senza problemi, il rifinanziamento del sostegno alla Guardia costiera libica. Negli anni sono stati documentate in ogni sede internazionale e nazionale, da molteplici organizzazioni indipendenti, le condizioni di vita nei centri di detenzione formalmente riconosciuti in Libia. Torture, stupri, ricatti erano e sono la norma, senza parlare dei centri non registrati in cui le organizzazioni umanitarie non hanno mai avuto accesso. La Libia non è considerata un POS (Place Of Safety) ovvero porto sicuro, eppure in barba ad ogni convenzione internazionale si continua o direttamente a respingere le persone anche vulnerabili in questo Paese o, mediante gli accordi fra i governi di Tripoli, Roma e La Valletta, a segnalare alle autorità libiche i natanti in fuga lasciando ai miliziani il lavoro sporco.
In Italia una parte delle istituzioni e dell’opinione pubblica sta continuando a sostenere questo approccio, utilizzando anche l’emergenza covid 19 come pretesto per proseguire con i respingimenti e ostacolare gli sbarchi. Come è noto, dal 18 aprile l’Italia è considerata porto non sicuro.
L’operato di Minniti prima, di Matteo Salvini poi, fino ad arrivare al governo attuale, non ha evidenziato reali discontinuità. Sono state chieste al governo libico “garanzie di maggior rispetto dei diritti umani dei migranti” (richiesta generica e non sottoposta ad alcun vincolo), ma nel frattempo si è fatta piazza pulita di ogni mezzo di soccorso. Le navi delle ong vengono sottoposte, dopo ogni salvataggio, a sequestro amministrativo accampando motivazioni disparate. Frontex e le altre agenzie europee non portano i propri assetti presso la costa libica, le stesse navi mercantili preferiscono allungare la rotta pur di non correre il rischio di intercettare imbarcazioni in avaria con migranti ed essere costretti al soccorso. Ma ci sono pezzi di Paese che si sono invece mobilitati per impedire il rifinanziamento alle missioni in Libia, che condannano l’operato libico, italiano ed europeo e chiedono di rivedere radicalmente le politiche sull’immigrazione. Lo hanno fatto durante il lockdown lo continuano ora utilizzando diversi strumenti. La campagna Io Accolgo, menzionata in apertura, è una di queste. L’azione di mailbombing rappresenta in questo momento forse quello più efficace per fare sentire la propria voce.

(Stefano Galieni)

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