Cinque leader africani a Washington: una nuova strategia Usa nel continente?

di claudia

di Stefano Pancera

Prenderà il via domani, 9 luglio, a Washington un mini-vertice diplomatico che per tre giorni riunirà cinque capi di Stato africani di Gabon, Guinea-Bissau, Liberia, Mauritania e Senegal. Gli Stati Uniti riscrivono dunque il copione della loro presenza in Africa?

Donald Trump si prepara ad ospitare dal 9 all’11 luglio un mini-vertice diplomatico di tre giorni con cinque capi di Stato africani. A prima vista, i cinque invitati – Gabon, Guinea-Bissau, Liberia, Mauritania e Senegal – hanno poco in comune: un mix di nazioni di piccole e medie dimensioni, di lingua francese, inglese, portoghese e araba, tre delle quali sono membri della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS). Tutte e cinque appartengono all’Africa occidentale costiera, una regione ricca di minerali.

Sarà curioso vedere quale sarà la postura del presidente più arrogante e imprevedibile di sempre quando siederà allo stesso tavolo con un quarantenne che fino al marzo dello scorso anno era in carcere, come il presidente del Senegal, Bassirou Diomaye Faye, o al fianco di un navigatissimo generale di brigata, artefice di uno spettacolare colpo di stato e di nuove elezioni, come il presidente del Gabon, Brice Clotaire Oligui Nguema.

Il vertice – pianificato con settimane d’anticipo e stimolato in parte anche dal recente successo mediatico dell’“accordo di pace” tra Ruanda e Repubblica Democratica del Congo – prenderà forma come un pranzo multilaterale a Washington martedì 9 luglio. Ma le sue radici affondano probabilmente in un incontro avvenuto mesi fa tra Trump e il presidente della Guinea-Bissau, Umaro Mokhtar Sissoco Embaló, durante una cerimonia a Parigi. Insomma, non è stato preparato in fretta e non sarà né il primo né l’ultimo.
“Il presidente Trump ritiene che i Paesi africani offrano incredibili opportunità commerciali che avvantaggiano sia il popolo americano che i nostri partner africani. Questa amministrazione sta dimostrando che l’America è presente e impegnata. Altri presidenti parlano dell’Africa, ma il presidente Trump sta parlando direttamente con i suoi leader e trasforma le parole in azione”, ha spiegato il funzionario della Casa Bianca quando gli è stato chiesto il perché dell’incontro.

Embalo
Umaro Mokhtar Sissoco Embaló

Due gli elefanti nella stanza: la Nigeria e il Sudafrica, che non sono stati invitati al summit di Trump per motivi diversi ma entrambi legati a tensioni politiche e strategiche con l’amministrazione americana. Dietro l’apparente casualità degli inviti, si nasconde infatti una mossa attentamente calcolata. L’obiettivo? Consolidare relazioni economiche bilaterali, rafforzare la sicurezza regionale e, neanche a dirlo, contenere l’avanzata di Cina e Russia in un’area che pullula di risorse e potenziale strategico. Trump sembra dunque ritenere oggi che i Paesi africani possano offrire nuove opportunità commerciali purché aderiscano alle regole economiche e politiche che lui stesso proporrà martedì prossimo.

Un approccio focalizzato sulla partnership attraverso il commercio e l’impegno del settore privato, non sugli aiuti. Per Joseph Sany, esperto del Centro Africa dell’Istituto statunitense per la pace, l’approccio ha una logica: dialogare con piccoli Paesi può produrre risultati tangibili, soprattutto se gli investimenti americani riescono ad avere un impatto più visibile rispetto a quanto accadrebbe in nazioni economicamente più grandi. Un investimento commerciale di 100 milioni di dollari in Gabon avrebbe un impatto enorme rispetto a un investimento di 100 milioni di dollari in Nigeria.

La strategia americana in Africa si muove con discrezione ma determinazione. Dietro ogni incontro, dichiarazione o missione diplomatica, si cela una mappa di interessi ben precisa che tiene insieme risorse minerarie, stabilità politica e contrasto all’influenza cinese. Ma vediamo cosa portano al tavolo i cinque Paesi invitati.

Senegal

È il più grande e avanzato tra i cinque: una giovane democrazia guidata dal neo-presidente Bassirou Diomaye Faye, che ora punta a rinegoziare i contratti con le compagnie straniere senza allontanarle. I giacimenti offshore di petrolio e gas, scoperti un decennio fa, sono finalmente pronti a entrare in produzione. Faye cerca un equilibrio tra interessi nazionali e attrattività per gli investitori. Un’impresa delicata, ma che gli Stati Uniti seguono con interesse.

Bassirou Diomaye Faye

Mauritania

È un Paese ricco di gas e petrolio – ospita investimenti USA targati Kosmos Energy e General Electric. La Casa Bianca lo considera anche un attore cruciale nel contesto regionale nella gestione dei flussi migratori.

Gabon

Dopo il colpo di stato del 2023 che ha messo fine al lungo dominio della famiglia Bongo, gli Stati Uniti hanno scelto una linea pragmatica: non isolare il nuovo presidente, Brice Oligui Nguema, ma accompagnarne la transizione verso un governo civile. Dietro questa scelta c’è una valutazione strategica. Il Gabon è un nodo minerario di primo piano. Ferro, oro e manganese abbondano nel sottosuolo, ma ciò che conta davvero è la sua posizione geopolitica. Per Washington, il Gabon può diventare un prezioso punto d’appoggio militare, da preservare soprattutto di fronte alla crescente pressione della Cina, pronta – secondo fonti d’intelligence – a costruirvi una base navale.

Brice Oligui Nguema

Guinea-Bissau

La più fragile del gruppo, ma non per questo ignorata da Washington. La Guinea-Bissau è nota per essere un crocevia del narcotraffico tra America Latina ed Europa: una vulnerabilità che preoccupa non solo sul piano della sicurezza. Il Paese è anche ricco di bauxite, fosfati e potenzialmente di petrolio, risorse che però restano ancora largamente sottosfruttate. Per ora, la dipendenza da Pechino è netta, soprattutto nel settore delle infrastrutture. Ed è proprio su questo terreno che gli Stati Uniti sembrano cercare spiragli per inserirsi, offrendo cooperazione economica e assistenza nella lotta alla criminalità.

Liberia

Legata a doppio filo con gli Stati Uniti fin dalla sua fondazione, la Liberia cerca nuovi investitori. Il presidente Joseph Boakai ha promesso lotta alla corruzione e migliori ritorni dalle miniere di ferro. Messaggi che piacciono a Washington, tanto più dopo l’ingresso della Liberia nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU e i segnali di stabilità che la rendono un partner credibile in una regione turbolenta.

Gli Stati Uniti riscrivono dunque il copione della loro presenza in Africa? Meno retorica sui valori, più focus sul commercio. Meno aiuti, più investimenti mirati. Niente proclami universali, ma accordi concreti, Paese per Paese. È la prova generale di una politica estera centrata esclusivamente sul business e sulla competizione strategica?

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