Burkina Faso: Solhan, il massacro di troppo 

di Celine Camoin

Illustrazione, courtesy Damien Glez

Oltre lo sdegno, c’è rabbia. Rabbia per quello che sta accadendo al Burkina Faso, teatro nel fine settimana del 5 giugno di una carneficina di dimensioni mai viste nel Paese, costata la vita a 160 civili, uomini, donne, bambini, anziani. Vittime senza distinzione di un barbaro attacco messo a segno da uomini armati non ben identificati, ancora meno ostacolati nel loro  progetto. Chi ha conosciuto il Burkina Faso pochi anni fa non può accettare ciò che sta accadendo e non può riconoscere in questa veste di terrore il “Paese degli uomini integri”. Una nazione serena, fatta di uomini e donne rispettosi, dignitosi, gentili, accoglienti, spiritosi, con uno spiccato interesse per la cultura, le pari opportunità, , retaggio di valori trasmessi dal  padre della patria Thomas Sankara.

“È stato un attacco inaspettato, molto violento, durato dalle 2 alle 6 del mattino, l’ora in cui è riuscito ad arrivare l’esercito sul posto”. Un lasso di tempo piuttosto lungo, che suscita interrogativi, ci dice Simon Nacoulma, responsabile dell’associazione Iccv Nazemse impegnata per lo sviluppo nel quartiere Cissin di Ouagadougou, sentito dalla redazione di Africa. Dalle notizie che scorrono sulla stampa locale, si ha l’impressione che l’attacco fosse ben preparato. Prima, gli assalitori hanno neutralizzato i volontari per la difesa della patria (Vdp). Successivamente, sono andati a incendiare il mercato, i negozi, ovvero tutto lo spazio pubblico e comunitario. Dopo ancora, hanno dato luogo a un rastrellamento casa dopo casa, uccidendo tutti coloro che hanno trovato.

Restano ancora senza risposte chiare i grandi interrogativi, chi siano questi terroristi, da dove vengano e perché facciano tutto questo. “Tutti gli autori di attacchi sono chiamati terroristi, ma non si sa mai veramente chi c’è dietro”. Solhan non è molto lontana dal Niger, nella cosiddetta zona dei tre confini, e si può pertanto ipotizzare che l’operazione sia stata preparata al di là della frontiera, o nella foresta che unisce il Burkina, il Benin e il Niger.

La zona dell’attacco è anche nota per essere zona di ricerca mineraria artigianale, e come ha fatto notare il quotidiano locale Le Pays, lo sfruttamento e il contrabbando delle risorse del sottosuolo, in particolare dell’oro in questa fascia del Sahel è utilizzato da gruppi armati per finanziarsi. “Non è ancora chiaro però se sia stato un attacco legato alle attività minerarie, oppure una dimostrazione di forza o una vendetta contro coloro che hanno preso le armi per proteggersi. Sono tante, troppe, le domande senza risposta”. I dubbi alimentano teorie più svariate, fino a ipotesi ‘complottiste’. Una di queste mette in relazione la tempestività della minaccia di ritiro dal Mali dell’operazione francese Barkhane – volta alla lotta al terrorismo nel Sahel – in rappresaglia alla svolta autoritaria del colonnello Assimi Goita, e questo attacco teatrale nel Paese vicino. Tempestivo è stato anche l’annuncio, non appena si è saputo del massacro, che il ministro francese degli Esteri Jean-Yves Le Drian si recherà in Burkina Faso questa settimana.

“Dietro interessi geopolitici sono in gioco le vite delle popolazioni”, deplora Nacoulma, che traduce una diffidenza sempre più diffusa nei confronti della presenza dei militari dell’operazione Barkhane nel Sahel.

In molti si rendono conto che le forze armate nazionali non sono abbastanza formate o equipaggiate per affrontare una minaccia del genere. “Il Burkina era dotato di un esercito molto forte durante la rivoluzione di Sankara. Ma dopo il colpo di Stato di Blaise Compaoré, è stato deciso di indebolire l’esercito per evitare destabilizzazioni. Con la conseguenza che le forze armate si sono ridotte alla sola guardia presidenziale”. Un processo durato trent’anni, e che vede oggi sul terreno un esercito appena rinato, sostenuto dai volontari per la difesa della patria, semplici cittadini a cui sono state date armi per difendere la nazione. L’idea, lanciata dai vertici dello Stato e anche dalla popolazione stessa, è stata trasformata in legge nel gennaio del 2020 ed è stata sposata in massa dai burkinabè. “Non avevamo altra scelta. Non sono presenti militari in ogni villaggio, per cui la creazione di corpi di ‘vigilantes’ locali è sembrata logica”.  Purtroppo, è mancata la strategia. “I Vdp fanno quello che possono, con i mezzi a disposizione, e se la loro istituzione ha permesso di ridurre gli attacchi in un primo momento, vediamo ora che non basta”.

In questo momento, i burkinabè attendono con grande impazienza la risposta del governo. “Solhan è stato il massacro di troppo. Resta solo da augurarsi che sia servito a qualcosa, a scatenare la risposta adeguata, una strategia, una visione. Non c’è più altra scelta, se non cogliere l’opportunità di questa svolta per salvare la nazione”. 

(Céline Camoin)

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