Biennale 2022, l’Africa incuriosisce e innova grazie ad artisti giovani e impegnati

di AFRICA

Prime volte, giovani artisti socialmente impegnati e qualche innovazione che guarda al futuro. Tutto questo e molto di più ha offerto il continente africano durante i primi giorni d’apertura della 59a Biennale arte di Venezia, intitolata Il latte dei sogni, e visitabile fino al prossimo 27 novembre.

di Tommaso Meo

L’Africa quest’anno è rappresentata da nove padiglioni nazionali – nel 2007, per comprendere meglio, ce n’era solo uno – anche se quasi tutti sono sparsi per la città e non hanno trovato posto nelle sedi più importanti dei Giardini e dell’Arsenale, principalmente per motivi di costi, ma anche di gerarchie. Nella location principali ci sono solo Sudafrica e Ghana, all’Arsenale, e l’Egitto ai Giardini.

Sebbene non si sia ancora presa il palcoscenico principale, l’Africa dell’arte non può dirsi nascosta in questa edizione della Biennale. Anzi, la forza dell’esposizione internazionale è storicamente quella di portare l’arte in ogni anfratto della città lagunare e quest’anno in ogni sestiere ci si può imbattere in un diverso padiglione africano. Addirittura sulla poco nota isola della Certosa si può ammirare l’opera di un artista namibiano che rappresenta la sua nazione.

L’altra notizia rilevante è la presenza a Venezia per la prima volta oltre che della Namibia, di Uganda e Camerun. Tutti e tre i Paesi esordienti hanno già incuriosito e fatto parlare di sé per diversi motivi. Inoltre l’Uganda, il 23 aprile, giorno dell’apertura al pubblico ha ricevuto una menzione speciale dall’organizzazione dell’esposizione per le opere proposte.

Ospitato a Palazzo Palumbo Fossati, non distante da piazza San Marco, il padiglione ugandese non passa inosservato soprattutto grazie ai tanti sgargianti manifesti d’ispirazione afrofuturista affissi per le calli che ne annunciano la presenza. All’interno, l’esposizione, chiamata Radiance – They dream in time, abbina ritratti e collage pop e irriverenti di Collin Sekajugo alle opere che destrutturano le tradizioni delle artigiane locali prodotte da Acaye Kerunen. Questo colorato e beffardo connubio, offerto da una nuova generazione di artisti ugandesi, ragiona sulle culture e il loro rapporto con la società dominante.

Collin Sekajugo, Own everything, 2019/2022

Come ha detto Shaheen Merali, il curatore britannico di origini tanzaniane del padiglione, “tanto gli artisti quanto la mostra indagano le vite della maggioranza a livello globale, un punto di partenza per esaminare ulteriormente chi viene escluso dalla partecipazione alle strutture lavorative, gli invisibili dei nostri schermi, gli esclusi dal mondo accademico o, come evidenziato con tanta enfasi da Sekujugo, gli esclusi dalle foto stock”.

Ai magazzini del sale, sull’assolata riva delle Zattere, si incontra il padiglione della Costa d’Avorio. Lo spazio espositivo mette in mostra le opere di cinque artisti locali e un italiano, Aaron Demetz. Il tema del padiglione, The dreams of a story, cerca di evidenziare la capacità della nuova generazione creativa ivoriana di fondere, attraverso l’arte, tradizioni e innovazioni, ricordi e sogni, di aprire una diversa direzione nel panorama dell’arte contemporanea.

“L’arte non è altro che il vero incrocio tra sogno e storia. Tra il soggetto che agisce, che crea e che diventa autore e la sua opera, che diventa parte di un patrimonio comune” spiegano i curatori Alessandro Romanini e Massimo Scaringella. “Se questa storia ci è stata negata, allora dobbiamo sognarla attraverso le opere e l’espressione artistica degli artisti presentati nel padiglione della Costa d’Avorio”.

Tra gli artisti ivoriani esposti la più grande ventata d’aria fresca l’ha portata però la giovane Laetitia Ky con i suoi autoritratti. Classe 1996, attivista femminista e performer, ha fatto dei suoi lunghi capelli afro una scultura sempre diversa e il veicolo per i suoi messaggi contro stereotipi e razzismo. Quella di Venezia è la sua prima mostra in assoluto dopo i 6 milioni di follower su TikTok e un libro, Love and justice, appena uscito.

Prima volta alla Biennale anche per il Camerun, presente in città con ben due padiglioni, di cui uno, quello a Palazzo Ca’ Bernardo, è il primo in assoluto ad essere dedicato esclusivamente ai token non fungibili (nft), oggetti d’arte digitali certificati grazie a una blockchain. Questo esperimento, finanziato da una crypto organizzazione indipendente, ospita una ventina di esponenti internazionali di arte digitale, mentre il liceo artistico Guggenheim, mette in mostra le opere, tra gli altri, della fotografa camerunense Angele Etoundi Essamba, dedicate al ruolo della donna.

Angèle Etoundi Essamba, A-Fil-Liations, fotografia su dibond e plexiglass

Il padiglione sudafricano, all’Arsenale, ha portato in Italia tre artisti con background diversissimi. Se il più maturo Roger Ballen offre ai visitatori un’esperienza onirica e immersiva tra visioni e spiriti, i giovani Lebohang Kganye e Phumulani Ntuli, entrambi cresciuti in una township, presentano lavori più personali e che hanno a che fare con il corpo, la percezione e l’identità.

Nel suo lavoro B(l)ack to Fairy Tales, per esempio, Kganye fotografa sé stessa come protagonista delle fiabe occidentali della sua infanzia, ma ambientate nel suo luogo di nascita, mettendo in scena il rapporto tra queste storie e la realtà con cui è cresciuta da bambina. “Mi immagino nelle storie rapportandole alla mia infanzia nelle township, che non era certo come nelle favole” racconta.

Nel sestiere di Castello, non lontano dall’Arsenale il padiglione dello Zimbabwe ospita invece la mostra I did not leave a sign che tratta temi legati al Paese e alla sua storia, come le migrazioni. Per rappresentare lo Zimbabwe è stato scelto, tra gli altri, Ronald Muchatuta, che a sua volta è stato da ragazzo un emigrante in Sud Africa e che nelle proprie si occupa di rifugiati, povertà e diverse forme di ingiustizia.

Da parte sua il Ghana, che aveva debuttato nel 2019, quest’anno ospita giovani artisti che reinterpretano le tradizioni nazionali e la stella nera, simbolo della nazione, in una mostra chiamata Black Star: The Museum as Freedom. Per il Kenya, il lavoro di Kaloki Nyamai, tra il figurativo e l’astratto, esplora e dà voce, alla storia delle comunità Kamba, un gruppo etnico nel Kenya orientale.

Forse nessuno di questi Paesi era tra i più attesi, ma tra storie personali significative, forme espressive originali e temi sociali sentiti, i nuovi artisti africani presenti a questa Biennale hanno gli ingredienti giusti per incuriosire e far riflettere su temi universali e d’attualità.

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