21/07/14 – Corno d’Africa – Dalla Somalia a Dadaab, le manette di un rifugiato

di AFRICA

 

La mia famiglia è una di quelle miserabili che vivono a Dadaab dall’inizio degli anni Novanta. La nostra storia va al di là di Dadaab, affondando le proprie radici dall’Etiopia, stabilendo casa in Somalia e lanciando poi la propria ombra in Kenya.

I miei genitori avevano vissuto sempre in Etiopia prima di trovare rifugio in Somalia, quando le scaramucce dei gruppi armati tra Borana, Gabrii, Gujii e Garii li spinsero via da quel Paese, cominciando un viaggio che li avrebbe alla fine portati nei campi di Dadaab, anche se a quel tempo mai avrebbero pensato di dover trascorrere dei decenni in dei campi profughi.

Shariff Hussein, questo è il nome di mio padre, si era stabilito a Luuq, una cittadina nela regione sud-occidentale di Ghedo in Somalia, dove presto nacquero i suoi primi figli, Maryan e Ibrahim. Poi all’improvviso cominciò la guerra, non appena nel 1991 fu cacciato il regime di Siyad Barre. Così la mia famiglia si trasferì a Baidoa. Qui nacque Dhaahiro.

La guerra raggiunse apici sempre più minacciosi con il passare dei mesi, con la situazione che diventava ogni giorno più pericolosa e incerta. Il numero sempre in aumento delle uccisioni nel Paese sconvolgeva Shariff Hussein, costringendolo a pensare su cosa fare. Anche se, immaginando quale potesse essere il futuro prossimo del Paese, gli sembrava abbastanza palese che l’unica soluzione era andarsene. Si diede un ultimatum per andare fino a Mandera in Kenya, dove l’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite garantiva servizi essenziali ai primi gruppi di profughi dalla Somalia. Questa scelta era stata però accolta con avversità da mia madre a da altri membri della famiglia.

“Tutti erano contrari alla mia decisione. Le persone sostenevano che avevo subito qualche stregoneria, mentre io non riuscivo a capacitarmi di come qualcuno volesse rimanere in un posto dove c’era la guerra”, ricorda ancora mio padre, ora un ottuagenario che vive nel campo profughi di Ifo.

Poche settimane dopo, Shariff Hussein cominciò un viaggio da Baidoa fino a Mandera. Era un viaggio lungo e pieno di ostacoli, una sfida indimenticabile per la mia famiglia che la ricorda ancor oggi. Durante il viaggio alcuni banditi rubarono quel poco cibo che avevano potuto portare con sé i miei familiari. Furono anzi quasi costretti ad arrancare a piedi quegli ultimi chilometri che li separavano dalla loro destinazione. C’è però un episodio che tutti ricordano, e ricorderanno per sempre.

Una mattina durante quel viaggio, la mia famiglia si era ritrovata davanti alla bocca di un cannone proprio mentre stavano preparando la colazione sotto un albero dove avevano dormito la notte prima, e sarebbero stati senz’altro annientati se uno di quei delinquenti non si fosse accorto che il loro obiettivo era una famiglia e non quel nemico che bramavano tanto di debellare.

Quei delinquenti arrestarono fugacemente mio padre. Perché stava portando dei bambini in viaggio in una strada così pericolosa? Non sapeva che potevano essere uccisi se venivano erroneamente scambiati per il nemico? Gli offrirono perciò alcuni suggerimenti e finalmente lo lasciarono libero.

Questa occasione, ricorda ancora oggi mia madre, è un giorno che non dimenticherà mai. La nostra storia stava per essere spazzata via, per sempre. Alla fine però la mia famiglia era riuscita ad arrivare a destinazione. Furono accolti calorosamente, ma non tutto era rose e fiori. (…) * Mohammed Hussein – Atlasweb

 

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