Viaggio nella coloratissima “arte popolare” di Kinshasa

di claudia

di Stefania Ragusa – Foto di Pascal Maitre

La metropoli è culla di grandi artisti contemporanei che hanno saputo imporsi nel panorama internazionale con un stile inimitabile. Le loro vivaci opere, ispirate a scene di vita quotidiana, realistiche e insieme caricaturali, sono ricercatissime dai collezionisti e vengono quotate cifre da capogiro. Cinquant’anni fa venivano scambiate per una cassa di birra…

A Kinshasa era “normale”, negli anni Settanta, che un pittore scambiasse una dozzina di sue opere con una cassa di birra. Le opere di cui parliamo – colori intensi, scene di affollata vita quotidiana, realiste e insieme caricaturali – sono rubricate oggi come “arte popolare” e incarnano, nella produzione figurativa contemporanea del continente, un preciso e quotato filone riconducibile in particolare alla Repubblica Democratica del Congo.

Chéri Samba, classe 1956, nessuna formazione accademica e moltissima università della strada, è considerato il principale esponente di questa corrente. Le quotazioni di un suo quadro raggiungono i centomila euro e sue opere sono presenti in importanti collezioni pubbliche e private, oltre che richiestissime dai curatori di mostre e fiere di arte contemporanea. Chéri Samba, che di vero nome fa Samba wa Mbimba N’zingo Nuni Masi Ndo Mbasi, scelse il suo celebrativo pseudonimo in tempi non sospetti, ossia quando nessuno pensava che questo tipo di iconografia potesse qualificarsi come qualcosa di serio e di pregiato, e cominciò in autonomia a fregiarsi del titolo di artiste populaire.

Chéri Samba, La Prévoyance, 2013. Acrilico su tela. / LUZ

Artigiano o genio?

La svolta per lui – e in realtà per l’intero filone – avvenne nel 1989, con la partecipazione alla mostra parigina Magiciens de la Terre, esposizione per moltissimi versi discutibile ma che sancisce mediaticamente il debutto dell’Africa sulla scena artistica internazionale. Poco dopo ci saranno l’ingresso nella Collezione Pigozzi, che a lungo resterà la principale raccolta europea di arte africana, e le prime personali all’estero.

I fortunati che negli anni Settanta avevano scambiato casse di birra per quadri si accorgono di avere fatto un affare, e la pittura popolare congolese inizia la sua ascesa. Chéri Samba avrebbe potuto trasferirsi altrove, ma ha preferito restare a Kinshasa, ingrandendo e cominciando a chiudere a chiave il suo studio e divertendosi a fare il sapeur. Indifferente alle accuse di dilettantismo e di essere un artigiano e non un vero artista, ha sempre sottolineato la portata sociale del suo lavoro. Il suo quadro del 1997 dedicato all’aids, per esempio, e presente nella Collezione Pigozzi, ha spinto molti congolesi a prendere finalmente sul serio questa malattia. Mentre per altre composizioni, che ritraevano in modo decisamente non celebrativo figure di potere, si è trovato a evitare la prigione di un soffio.

Hilary Balu, Luyalu Kimvuama, 2021. Tecnica mista su tela / LUZ

Giocoso e graffiante

Chéri Cherin, altro nome importante nella corrente populaire, non espose a Magiciens de la Terre, ma si trovò ben presto anche lui cooptato tra gli artisti di Pigozzi. Di un anno più vecchio di Chéri Samba, a differenza di questi studia e si forma all’Accademia di Belle Arti di Kinshasa, scegliendo però di esprimersi secondo i canoni dell’arte popolare, che trova più duttili e rispondenti al suo desiderio di raccontare con sincerità, ma anche con giocosa e graffiante ironia, gli aspetti critici della realtà che lo circonda. Nei suoi quadri ritroviamo le ingiustizie quotidiane, la prepotenza dal potere e anche la cronaca nera. Cherin è giustamente considerato uno dei promotori del Movimento dell’Arte Popolare della capitale. Ha esposto in tutto il mondo, ma è rimasto a vivere a Kinshasa e il suo impegno si è concretizzato negli anni anche sul piano educativo e formativo.

Versante Pop

Il più famoso dei suoi allievi è senz’altro JP Mika, che più volte ha raccontato di come i suoi insegnanti in Accademia volessero orientarlo a tutti i costi verso la pittura astratta e concettuale, ma come poi l’incontro fortunato con Chéri Cherin gli avesse permesso di ritrovare la sua vera strada. Pur mantenendo forti connessioni con Kinshasa, JP Mika ha deciso però di vivere e lavorare all’estero.

Altri esponenti della nouvelle vague populaire hanno scelto di restare. Uno di loro è Hilary Balu, classe 1992, un talento precoce per il disegno e disciplinati studi accademici. A portarlo dall’altra parte, ossia sul versante pop, è stata una conversazione con l’artista Vitshois Mwilambwe Bondo, occorsa durante un vernissage a Kinshasa. Balu capì, in quell’occasione, di doversi affrancare dai codici estetici occidentali e dalle tecniche apprese a scuola, recuperando un’altra modalità di espressione, fortemente allegorica e simbolica, più vicina al suo background e alle sue radici. Non a caso nei suoi dipinti si incrociano in un eloquente caos oggetti passe-partout delle società globalizzate e citazioni dei feticci nkisi della religione congolese.

L’artista congolese Freddy Tsimba

Gli artisti emergenti

Un altro nome da tenere d’occhio è quello del trentaduenne Gaël Maski, che nella realizzazione dei suoi dipinti, tutti portatori di un messaggio sociale di denuncia, parte sempre da un’immagine fotografica, rielaborando la composizione graficamente e pittoricamente. A Kinshasa opera anche Monsengo Shula che, dal punto vista anagrafico e stilistico, è più vicino ai due Chéri che alla nouvelle vague, e forse anche per questo rappresenta una colonna portante del movimento pop, che oggi ha scelto di esprimersi anche attraverso altri linguaggi e modalità.

Ndaku ya La vie est belle è il nome che si è dato un gruppo di artisti di strada che trasformano i loro corpi in sculture viventi. Il collettivo ha trovato casa nel quartiere di Matonge, famoso per aver dato i natali alla band di Papa Wemba. Sono circa venti artisti che trasformano la spazzatura in bizzarre opere d’arte indossabili e veicolano per le vie della città il loro messaggio politico e ambientalista.

L’artista Cheri Cherin nel suo studio con uno dei suoi lavori / LUZ

Scena in fermento

Anche Freddy Tsimba non è un pittore, ma un quotato artista plastico. Nel suo lavoro utilizza metalli riciclati e materiali di risulta. Costruisce le sue sculture servendosi di bossoli e cartucce recuperate in zone di conflitto ma anche di oggetti di uso quotidiano come chiavi, forchette, cucchiai o forbici ripescate negli ospedali. È facile trovarlo nel suo studio di Kinshasa in piena notte. È nelle ore notturne che si sente più creativo ed energico. Tsimba si occupa di arte anche come curatore e spiega che attraverso le sue sculture prova a mettere in scena la condizione tragica degli esseri umani e insieme la loro indomita capacità riparativa. In particolare, lo ispirano le figure femminili ed è a loro che vuole rendere omaggio.

L’arte popolare a Kinshasa è insomma viva, in fermento e sintonizzata sulle grandi questioni che interessano il pianeta. Per chi non riuscisse a fare il viaggio sin qui per coglierla nella sua immediatezza, c’è una soluzione di compromesso: la galleria Angalia di Parigi, specializzata in artisti congolesi, porta le loro opere nel cuore dell’Europa. Molti di questi artisti hanno mantenuto la base a Kinshasa e, come Chéri Samba e Chéri Cherin, non se ne sono pentiti. A nessuno verrebbe in mente oggi di pagarli a casse di birra, ma defilati dall’art system internazionale mantengono integra la loro libertà creativa.

Hilary Balu, Nzambe Ako Sala, 2021. Tecnica mista su tela. / LUZ

Questo articolo è uscito sul numero 3/2023 della rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop

L’ingorgo inestricabile, incubo quotidiano di Kinshasa

Traffico in tilt, code chilometriche, paralisi totale di ogni strada: è la maledizione a cui sono condannati ogni giorno i 18 milioni di abitanti della capitale della Repubblica Democratica del Congo. «Impossibile liberarsi da soli da quell’inferno di carrozzerie arroventate».

La Repubblica Democratica del Congo è un gigante dai piedi d’argilla, ricchissimo di materie prime e perennemente sull’orlo del baratro. Ma per gli abitanti della capitale Kinshasa l’incubo non sono la guerra, la crisi economica, la disoccupazione, la povertà, la corruzione e neppure le prossime elezioni presidenziali preoccupano fino in fondo la gente: quello che è sulla bocca di tutti è l’embouteillage.

Si tratta di un momento critico, in cui l’algoritmo dello spostamento dei 18 milioni di abitanti della città – che si muovono su camion, furgoni fula-fula, apecar, moto e a piedi – si blocca inesorabilmente.

E come in una partita a shangai non si riesce a trovare qual è lo spostamento necessario, qual è il mezzo centimetro che ognuno deve fare per andare avanti. La città si ferma, passano i minuti e poi le ore finché entri in uno stato di incoscienza, non cerchi più l’uscita, ma è lei che ti cerca, è lei che ti insegue.

Kinshasa è una città impazzita tutte le mattine inizia a correre nel traffico, 12 ore fino al tramonto, quando gli effetti de l’embouteillage si calmano. Come per effetto del down di una droga psichedelica. Poi ogni mattina la città chiede un’altra dose di embouteillage ai suoi abitanti per raccoglierli intorno a sé come le sirene di Ulisse, ma i kinois – gli abitanti della megalopoli – sanno che l’embouteillage altro non è che la presa di coscienza che nel labirinto della vita non possiamo trovare l’uscita da soli. (Fabrizio Floris)

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