Missione Barkhane, Parigi non vuole lasciare il Sahel

di Stefania Ragusa

“Resteremo. Ciò non esclude che le modalità del nostro intervento potranno evolversi. I Paesi del Sahel vogliono che continuiamo ad aiutarli e i risultati ottenuti ci consentono di accentuare la strategia d’accompagnamento delle forze locali, assieme ai nostri partner e con gli alleati sul terreno. Non ci ritireremo”. Florence Parly, ministra francese delle Forze armate, si è espressa in questi termini durante il suo intervento al Senato. In aula si discuteva dell’impegno militare francese nel Sahel, la famigerata missione Barkhane.

Il dibattito è stato tiepido. La maggior parte dei relatori ha reso omaggio alla missione senza mettere in questione la necessità di rimanere impegnati sul terreno. Sono otto anni che il contingente francese è presente nel Sahel, principalmente in Mali, con un numero di soldati che è progressivamente aumentato fino a raggiungere 5.100 unità. “A pochi giorni dal vertice di N’Djamena (del G5 Sahel e della Francia, Ndr) è tempo di fare il punto su questo impegno di lungo corso e di tracciare nuove prospettive”, ha annunciato nella sua introduzione Christian Cambon, presidente della commissione Esteri, Difesa e Forze armate, nonché senatore dei Repubblicani, il gruppo di maggioranza al Senato. “Sapere se rimarranno o meno i rinforzi di 600 soldati è importante ma non è tutto. Vogliamo conoscere la strategia del governo, partendo da una doppia costatazione: da un lato, gli innegabili successi tattici di Barkhane (contro i jihadisti) , dall’altro un sostegno europeo in arrivo, sebbene ancora insufficiente (…). Ma la fine di questa crisi, che va avanti da anni, non sarà certo militare. La soluzione è essenzialmente politica e di conseguenza, dipende dai maliani. Tuttavia gli accordi d’Algeri non sono stati attuati e, peggio, abbiamo assistito a un golpe. Una situazione che ci dà l’impressione di un indietreggiamento di otto anni. In queste condizioni, cosa fare: prorogare per altri otto anni, col rischio di trovarci allo stesso punto?” si è interrogato Cambon, escludendo tuttavia l’opzione del ritiro delle truppe.

Dal collega di partito Bruno Retailleau è giunto un invito a ricalibrare “la combinazione dei nostri sforzi per la sicurezza e dei nostri sforzi per la cooperazione: ogni giorno Barkhane costa due milioni di euro, mentre nella cooperazione spendiamo 200.000 euro”. Questo ha sottolineato il senatore, chiedendo un maggiore contributo dell’Europa – “la forza Takuba è un aiuto, ma è insufficiente” – e più impegno per portare nelle aree remote dei Paesi coinvolti i servizi di base come scuola, sanità, acqua. Anche dal gruppo degli Indipendenti è giunto pieno appoggio alla forza Barkhane, con la convinzione che “gli eserciti locali non sono pronti. Ritirarsi sarebbe lasciare il via libera ai jihadisti”, ha detto Joel Guerreau.

Più perplesso è stato il portavoce del Gruppo Ecologista – Solidarietà e Territori (Gest), Guillaume Gontard: “Il parlamento è muto. Eppure c’è molto da proporre a da dire su questa operazione il cui budget è giunto a 1 miliardo di euro nel 2020, mentre era partita da 250 milioni nel 2014. Si sono raggiunti successi tattici, ma ci avviciniamo agli obiettivi fissati con i nostri partner? Gli eserciti locali sono capaci di annientare i terroristi? A che punto stanno i processi di riconciliazione? (…) Uccidere alcuni alti esponenti del jihadismo non farà scomparire il movimento né la sua ideologia”. Ci troviamo davanti a evidenti insufficienze dell’operazione militare, ha detto il senatore del Gest, a fronte di un bilancio “insostenibile”. Un bilancio che conta anche perdite in vite umane: 55 morti francesi, migliaia tra i locali. Gontard ha chiesto chiarezza sul raid di Bounti, sottolineando che “un’operazione senza sostegno delle popolazioni locali perderebbe legittimità”.

(Céline Camoin)

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