Il Sudan rischia di andare a pezzi

di Marco Trovato

A due anni e mezzo dallo scoppio del conflitto, il Sudan è un Paese frammentato, stremato da una guerra senza confini né prospettive dove la popolazione civile è bersaglio e scudo umano. Dalle aree dei combattimenti filtrano notizie di orribili stragi. Tredici milioni di sfollati, fame, strutture sanitarie al collasso

di Pierre Yambuya – foto di Simon Townsley / Panos Pictures

Khartoum, un tempo cuore vivo del Sudan, è oggi un deserto di rovine. Le sue strade, un tempo affollate e vivaci, sono ora disseminate di carcasse carbonizzate, edifici sventrati e silenzi irreali. Il Museo Nazionale, che custodiva millenni di storia, è stato saccheggiato: restano solo sale devastate e reperti distrutti. L’aeroporto internazionale, simbolo di connessione con il mondo, giace in macerie dopo due anni di occupazione e bombardamenti. Nel marzo scorso, l’esercito regolare ha riconquistato la capitale dopo un lungo assedio. Vittoria illusoria: Khartoum oggi è solo la testimonianza muta della devastazione e della disgregazione di un Paese. Invece di essere sconfitte, le milizie ribelli delle Forze di supporto rapido (Rsf) hanno cambiato strategia. Ritiratesi da Khartoum, stanno ora concentrando le loro forze in Darfur, dove si ripete il copione tragico dei massacri di vent’anni fa. Mezzo milione di sfollati – in gran parte donne, bambini e anziani – sono intrappolati e senza via di fuga.

Guerra tra generali

La guerra è esplosa il 15 aprile 2023, quando lo scontro fra Abdel Fattah al-Burhan, generale dell’esercito (Saf), e Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemedti, leader delle Rsf, è degenerato in conflitto aperto. Le Rsf, nate come “milizie janjawid nel Darfur e successivamente integrate formalmente nelle forze armate, hanno rifiutato l’assorbimento completo nell’esercito previsto da un accordo di transizione, temendo di perdere autonomia e potere economico. Il risultato è stato una guerra brutale, combattuta casa per casa, villaggio per villaggio. Nonostante perdite territoriali nell’ultimo anno, le Rsf hanno rilanciato a inizio maggio un’offensiva inedita su Port Sudan, la città sul Mar Rosso oggi sede del governo provvisorio. Secondo gli esperti militari, i ribelli hanno ricevuto dai loro alleati regionali dei droni tecnologicamente più avanzati, capaci di percorrere distanze più lunghe e di colpire a distanza obiettivi strategici: l’aeroporto di Port Sudan (l’unico in cui arrivavano gli aiuti umanitari), una base militare e il principale deposito petrolifero del Paese.


Una donna nei pressi del campo profughi di Al-Hilou. Il Sudan affronta la peggior crisi umanitaria al mondo, ma resta ai margini
dell’attenzione internazionale

Le esplosioni hanno causato incendi e caos, giungendo persino vicino alla residenza del generale al-Burhan. A Port Sudan manca l’elettricità da settimane, dopo i danni alla centrale di Meroë. I bombardamenti prendono di mira anche i depositi di gas e benzina, con il rischio di ulteriori carenze e sofferenze per gli abitanti e gli sfollati (la città ospita oggi circa 700.000 persone, il doppio rispetto a prima della guerra). «Eravamo scappati da Khartoum pensando di essere al sicuro», racconta Mariam Ahmed, madre di tre figli rifugiatasi a Port Sudan. «Ma adesso arrivano le bombe anche qui. Non so più dove andare».

Emergenza umanitaria

La crisi umanitaria ha assunto proporzioni catastrofiche. Le Nazioni Unite stimano oltre 13 milioni di sfollati, 30 milioni di bisognosi di aiuti e almeno 3 milioni di bambini a rischio di morte per fame, con quasi 13 milioni di sfollati. Il sistema sanitario è al collasso: il 70% della popolazione non ha accesso a cure mediche e l’80% degli ospedali è fuori uso o funziona solo parzialmente. Oltre cento strutture sanitarie sono state attaccate.  Gli operatori umanitari sono spesso bersaglio di violenze e stragi efferate. L’11 aprile, l’ong Relief International ha denunciato l’esecuzione sommaria di cinque medici e quattro autisti da parte delle Rsf. Mantenevano aperta l’unica clinica funzionante nel campo di Zamzam. I miliziani si sono giustificati accusando le vittime di nascondere soldati dell’esercito tra i civili. Secondo le immagini satellitari, circondavano il campo circa duecento jeep armate delle Rsf. Intere sezioni dell’insediamento sono state incendiate.  Lo spettro della carestia aleggia tra i civili che hanno lasciato i propri villaggi e ora vagano da una parte all’altra del territorio nel tentativo di sfuggire ai combattimenti. «Siamo all’ultimo stadio dell’insicurezza alimentare», denuncia l’Alto Commissariato per i Rifugiati. «Non c’è più nulla, se non la morte per fame». Nel Darfur, le ong parlano apertamente di pulizia etnica. Migliaia di civili sono stati massacrati, stuprati, mutilati. «Non è solo una guerra tra generali: è un genocidio silenzioso», afferma Ahmed El-Sadiq, medico volontario in una clinica improvvisata vicino a Nyala. «Vedo donne violentate, bambini senza arti, anziani giustiziati. E nessuno interviene».

Interessi in gioco

Il Darfur non è solo teatro di guerra: è anche una regione ricca d’oro. Chi lo controlla ha accesso a risorse e potere. Il conflitto sudanese è ormai diventato uno scacchiere internazionale. Gli Emirati Arabi Uniti sono accusati di sostenere le Rsf in cambio di oro e influenza, mentre l’Egitto appoggia l’esercito temendo il caos ai propri confini. Anche il Ciad, la Russia e mercenari del gruppo (ex) Wagner risultano coinvolti, seppur indirettamente. Il Sudan è diventato un nodo strategico nella competizione per il controllo delle risorse, delle rotte migratorie e dell’accesso al Mar Rosso. La recente decisione della Corte internazionale di giustizia dell’Aia di rigettare la denuncia del Sudan contro gli Emirati per genocidio, ritenendosi non competente, ha acuito le tensioni diplomatiche, lasciando al tempo stesso carta bianca ai ribelli.  

Un minareto crollato pende dal tetto di una moschea crivellata di proiettili a Bahri, riconquistata dalle forze governative dopo duri scontri con le Forze di Supporto Rapido (Pascal Maitre – Panos Pictures)

«È una guerra per procura in piena regola», osserva Alex de Waal, esperto di Africa presso la Tufts University. «Il Sudan è diventato un teatro in cui si combatte per interessi economici e strategici ben più ampi della sua stessa sopravvivenza come Stato». Con il controllo territoriale sempre più frammentato, diversi analisti temono che il Sudan stia andando verso una divisione di fatto. Le Rsf hanno consolidato il potere su vaste aree del Darfur e del Kordofan, dove impongono nuove regole, tasse e alleanze tribali, mentre l’esercito mantiene il controllo su Port Sudan e il nord-est. Le zone centrali e lo Stato del Nilo Azzurro (il Sudan è una repubblica federale) restano contese, nel caos più totale. Le autorità locali, dove ancora esistono, agiscono in modo autonomo. Il Sudan sta scivolando verso una balcanizzazione informale, dove non esiste più un’autorità centrale né un’unità territoriale. «Stanno disegnando nuove frontiere con il sangue della gente», afferma con amarezza Yassin Suleiman, insegnante fuggito da Wad Madani. «Il Sudan che conoscevamo non esiste più. Ora siamo solo pedine in un gioco che non ci siamo scelti».

Civili usati come scudi

I negoziati, ospitati prima in Arabia Saudita e poi in Egitto, si sono arenati tra reciproche accuse e l’incapacità della comunità internazionale di imporre un cessate il fuoco duraturo. Gli appelli delle Nazioni Unite sono rimasti lettera morta. Intanto, la popolazione sudanese continua a morire nel silenzio. Le reti di solidarietà locali, un tempo fondamentali, sono oggi sopraffatte dalla portata del disastro. La moltiplicazione dei gruppi armati – milizie locali, islamisti, bande paramilitari – rende la situazione ancora più esplosiva. Nemmeno nei territori “riconquistati” c’è pace: l’esercito spesso si vendica sulle popolazioni accusate di aver sostenuto i ribelli. La guerra è diventata circolare, selvaggia, con confini sempre più sfumati tra carnefici e vittime. Padre Jorge Carlos Naranjo*, missionario comboniano a Port Sudan, lo dice chiaramente: «Non esiste un fronte del bene contro uno del male. Ma quello che è un fatto è che le popolazioni fuggono all’arrivo delle RSF e cercano rifugio nei territori sotto controllo dell’esercito». Il giudizio di un operatore umanitario contattato da Africa, attivo nelle zone del conflitto, è severo: «Entrambe le parti portano responsabilità: come in ogni guerra, si registrano abusi e violenze che colpiscono civili innocenti. Ma le RSF si distinguono per una ferocia spietata, forse perché consapevoli di trovarsi in una posizione sempre più fragile». La guerra in Sudan è forse la più grave crisi ignorata al mondo. Nessuna grande capitale occidentale l’ha posta tra le sue priorità. Eppure, il futuro di un Paese strategico, ponte tra Africa e Medio Oriente, è appeso a un filo. «Abbiamo bisogno che il mondo ci guardi negli occhi», dice una giovane attivista intervistata da Al Jazeera, che preferisce restare anonima per sicurezza. «Non siamo solo numeri. Siamo esseri umani dimenticati da tutti».

* Nota della redazione
Nella versione cartacea di questo articolo, a causa di un errore di impaginazione, la citazione attribuita a Padre Jorge Carlos Naranjo non rispecchia correttamente il pensiero da lui espresso, qui riportato fedelmente. Ci scusiamo con l’interessato e con i lettori per l’inconveniente.

L’immagine di apertura dell’articolo

Bomba inesplosa nei pressi dell’ospedale di Reivi, nella regione dei Monti Nuba, uno dei tanti centri sanitari finiti sotto il fuoco incrociato dei combattimenti tra le Forze armate e le Forze ribelli di supporto rapido (Rsf)

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