di Valentina Giulia Milani
L’annuncio dell’Ucraina di recedere dal divieto sulle mine antipersona segnala una crisi del diritto internazionale, mentre in Africa il lavoro di sminamento resta urgente ma sottofinanziato.
L’annuncio dell’Ucraina di voler recedere dal Trattato di Ottawa, la convenzione internazionale che proibisce l’uso, lo stoccaggio, la produzione e il trasferimento delle mine antipersona, è un segnale grave. Non solo per il suo contenuto — che riguarda un’arma dal potenziale distruttivo indiscriminato — ma per il momento storico in cui avviene. A metterlo in luce – intervistato da Africa Rivista – è Giuseppe Schiavello, direttore della Campagna Italiana contro le Mine, organizzazione da anni impegnata sul fronte del disarmo umanitario. Un fronte che, in Africa, resta oggi quanto mai vivo.
Riflettendo sul fatto di cronaca, Schiavello nota che l’Ucraina, Paese firmatario del Trattato fin dal 1999, non ha mai distrutto del tutto il proprio arsenale di mine: prima dell’invasione russa ne conservava ancora oltre 3,6 milioni. La sua scelta annunciata, che formalmente non può essere attuata poiché la Convenzione vieta il recesso in tempo di guerra – precisa Schiavello -, non è solo una violazione del diritto internazionale, ma un gesto che riflette una crisi più ampia. “È un atto di disperazione ma anche un segnale devastante per il diritto umanitario”, afferma il direttore precisando che “le mine colpiscono per decenni, in modo cieco. Il 90% delle vittime sono civili, e tra queste circa la metà sono bambini”, sottolinea.
Il Trattato di Ottawa, adottato nel 1997 e ratificato da 164 Stati, è uno degli strumenti più riusciti del disarmo multilaterale. Ha imposto l’obbligo di distruggere gli arsenali esistenti, vietare l’uso e la produzione di mine antipersona e impedire il loro commercio. Ma oggi sembra essere sotto attacco, portando a chiedersi se sia segnale di una crisi più ampia del multilateralismo. Schiavello osserva che “i segnali in arrivo dalle grandi leadership, come quella americana, sono ambigui”. Tuttavia, aggiunge, “molti Stati continuano a credere nel multilateralismo e nel valore delle regole condivise”. L’Ucraina è “un caso emblematico, un campanello d’allarme”, che “dovrebbe spingerci a rilanciare un approccio inclusivo. Perché senza multilateralismo, non c’è garanzia per nessuno”.
Secondo il direttore della Campagna, “se oggi viene messo in discussione il divieto sulle mine, domani potrebbe toccare alle armi chimiche, ai laser accecanti, alle cluster bomb. È il disprezzo crescente per il diritto internazionale umanitario il vero nodo: non esistono più regole comuni. I civili — in Ucraina, a Gaza, in Siria — dovrebbero essere protetti”.

Nel frattempo, il continente africano resta uno degli scenari più colpiti. Dai campi agricoli alle aree urbane, le mine limitano l’accesso alle terre, rallentano la ricostruzione e mettono in pericolo la vita delle comunità. In Paesi come il Mozambico, il Sud Sudan, la Somalia e la Repubblica Democratica del Congo, il lavoro di sminamento prosegue tra mille ostacoli. Ma i fondi internazionali scarseggiano. “Gli Stati Uniti, pur non essendo parte del Trattato, erano il principale donatore. Il taglio dei loro finanziamenti ha avuto un impatto devastante”, dice Schiavello.
La Campagna Italiana contro le Mine — di cui Schiavello è direttore dal 2001 — è parte di un network globale per il disarmo umanitario. In Italia ha ottenuto risultati concreti: “Eravamo tra i maggiori produttori mondiali. Siamo diventati un Paese guida nel blocco del commercio, nella distruzione degli arsenali e nel sostegno ai progetti di mine action”.
Con la legge 58, l’Italia ha anche vietato a banche e fondi di investimento di sostenere finanziariamente aziende produttrici di mine o cluster bombs. “È uno strumento innovativo. Ha colpito gli interessi di chi, da quel business, ricavava profitti importanti”.
Quello della mine action è un lavoro articolato, che comprende bonifica, distruzione degli stock, educazione al rischio, assistenza alle vittime e reinserimento. Ma in Africa, spiega Schiavello, “le difficoltà sono enormi: mancano strumenti, competenze, fondi. E in molti contesti, come in Mozambico, eventi climatici estremi hanno vanificato anni di mappatura”. Inoltre, “gli arsenali abbandonati nei Paesi instabili diventano un supermercato per i gruppi armati. Lo abbiamo visto in Libia, dove mine italiane degli anni ’80 sono riapparse in Siria nelle mani di Daesh”.
Alla luce di tutto questo, l’Africa si trova oggi di fronte a un bivio. Da una parte la necessità di rafforzare gli strumenti di bonifica, anche con il supporto europeo. Dall’altra, il rischio che i fondi disponibili vengano quasi interamente assorbiti dalla crisi ucraina. “L’Ucraina rischia di diventare il Paese più minato del mondo”, avverte Schiavello. “Alla fine del conflitto, si stima che oltre il 50% del suo territorio sarà contaminato”.
Servono risorse, ma anche una rinnovata volontà di difendere i principi del diritto internazionale umanitario, secondo Schiavello il quale ricorda che “la Convenzione di Ottawa è una conquista storica. Abbandonarla significa dire che i civili non contano più. Ma le guerre senza regole non finiscono: si moltiplicano. E travolgono tutti”.