Diminuiscono i detenuti stranieri, ma c’è chi preferisce non saperlo

di Stefania Ragusa

Nel comprensibile clamore mediatico suscitato dall’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, avvenuto lo scorso 25 luglio, ci sono state reazioni scomposte e affrettate che sono indice del clima politico e culturale che stiamo vivendo. Clamorosa, lo ricorderete, la brusca inversione di toni che ha caratterizzato esternazioni politiche  e social non appena è stato chiaro che ad uccidere il carabiniere non erano stati immigrati nordafricani magari arrivati con i barconi ma due turisti benestanti, statunitensi e bianchi. Esemplari, da questo punto di vista, le uscite di Giorgia Meloni e Daniele Capezzone, che prima hanno dato il meglio per fare partire  la caccia al nero, poi si sono girati dall’altra parte.

Tweet di capezzone

Corriere delle Migrazioni non vuole entrare in questa polemica, ma ci sembra quanto mai opportuno, in un momento come questo, riportare l’attenzione su elementi obiettivi.  In particolare su quelli che riguardano la reale “pericolosità” dei migranti e il loro tasso di criminalità. Lo facciamo attraverso uno studio uscito solo pochi giorni fa: il rapporto di metà anno dell’associazione Antigone relativo al sistema penitenziario italiano. I numeri  pubblicati contribuiscono a dimostrare quanto l’allarme sicurezza legato alle migrazioni sia slegato dai dati di realtà.

I detenuti stranieri, infatti, sono diminuiti del 3,68% in dieci anni. «Al 30 giugno 2019 rappresentano il 33,42% della popolazione reclusa. Erano il 33,95% sei mesi fa e il 35,19% sei anni fa, al tempo della sentenza di condanna da parte della Corte Europea dei Diritti Umani nel caso Torreggiani. Ed erano il 37,10% dieci anni fa. È evidente la sopravvalutazione mediatica del tema», recita il rapporto. «Se nel 2003 su ogni cento stranieri residenti regolarmente in Italia l’1,16% degli stessi finiva in carcere, oggi la percentuale è scesa allo 0,36%».

Segno che l’integrazione funziona e che ciò che fa aumentare la criminalità straniera è per lo più la situazione di illegalità ed emarginazione nella quale in tanti vengono tenuti. In quest’ottica appare quanto mai significativo il dato riguardante i detenuti rumeni: sono diminuiti in percentuale di più di un terzo, passando dai 3661 del 2013 agli attuali 2509. «È questo l’effetto dell’integrazione e delle seconde generazioni» osservano gli estensori del rapporto.

Altri numeri su cui riflettere sono quelli relativi al livello di istruzione e di benessere. «Se sommiamo gli stranieri e i detenuti provenienti dalle quattro regioni meridionali più popolose (Sicilia, Campania, Calabria e Puglia) siamo al 77% del totale dei detenuti. Se aggiungiamo anche i detenuti provenienti da Sardegna, Basilicata, Abruzzo e Molise si supera l’80%. Tutto il resto del Paese, tendenzialmente più ricco, produce un quinto della popolazione detenuta, pur costituendo circa i due terzi dell’Italia libera. Oltre mille detenuti sono analfabeti, di cui ben 350 italiani. In Italia gli analfabeti sono lo 0,8%. In carcere la percentuale raddoppia. Inoltre ben 6.500 detenuti, più del 10% del totale, hanno solo la licenza elementare. I laureati sono poco più dell’1% (698), mentre nella società libera sono il 18,7%».

Se le cose stanno così – e stanno così – è lecito immaginare che per prevenire il crimine gli investimenti sull’educazione e sul welfare potrebbero essere ben più efficaci delle manette e dei daspo urbani. E i politici che si imbarcano in redditizie (elettoralmente parlando) cacce al nero, dovrebbero essere chiamati a rispondere delle loro affermazioni, al pari di quei maestri e professori che, per avere scritto cose becere sui social, vengono allontanati dai posti di lavoro.

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