Un muro verde fermerà il deserto?

di Enrico Casale
alberi deserto

L’attitudine ad erigere barriere è nel Dna dell’uomo. Lo fa da quando è nata «la civiltà», per due semplici motivi: per non fare entrare o, viceversa, per non far uscire. Sbarramenti di cemento, di metallo, di filo spinato, mentali, punteggiati di garitte: all’interno, uomini che tengono sotto tiro altri uomini. Ma c’è un’opera di contenimento creata dall’uomo che ha funzioni opposte rispetto ai muri eretti per curare a valle, infischiandosene del problema a monte. Lo spirito di questo immenso ostacolo è infondere speranza al futuro di milioni di giovani, ristabilendo un equilibrio economico, culturale ed ambientale. Stiamo parlando di un maestoso progetto agronomico a lungo termine, nato per controllare l’avanzare della desertificazione sub-sahariana: un muro vivente di vegetazione di 8.000 chilometri, profondo dai 15 ai 20, che sfila dal Senegal al Gibuti lungo tutta la fascia dei territori del Sahel.

Fermare il deserto

Ma perché ad un certo punto l’uomo sente la necessità di controlla l’avanzare della desertificazione? E prima? Per millenni in quelle aree i cacciatori-raccoglitori prima, e i loro discendenti diretti, i pastori nomadi poi, allevatori estensivi al seguito dei loro armenti, non si ponevano neanche lontanamente l’idea di un controllo diretto sull’ecosistema del deserto: facevano parte di quella selezione naturale ed erano funzionali a quella realtà, a volte spietata, a volte sublime.
Il concetto di porre un ostacolo tra il deserto e l’uomo si è posto nel momento in cui avvennero, in epoca neolitica, i primi addomesticamenti e selezioni delle varietà botaniche selvatiche edibili, che di fatto porteranno alla nascita dell’agricoltura e alla genesi dell’uomo stanziale agricolo: nel corso dei secoli, sarà questi a imporre la sua economia con esigenze assai diverse dal nomadismo dei grandi spazi.
Ed è a questo punto che per l’umanità il deserto diventa un problema, un pericolo potenziale di fame e povertà, che andrà sempre più acutizzandosi nel corso dei secoli.

L’equilibrio spezzato

La storia dimostra, tuttavia, che per un lungo periodo, durante le civiltà dei regni africani (corrispondono alle varie fasi dei nostri – alto, medio, e basso evo), la lotta, anche se dura, è sostenibile, ha dato risultati concreti. Le comunità sono custodi del territorio, creando di fatto una proto-barriera, efficace a contrastare la naturale tendenza del deserto ad avanzare e, come ben pochi sanno, anche ad arretrare, con una dinamica simile alle onde sulla spiaggia. L’agricoltura creava, come dovunque, e da sempre, paesaggio agrario intenzionalmente funzionale, involontariamente estetico.
L’innesco del processo distruttivo a cui siamo arrivati adesso nasce nel momento in cui il continente europeo prima, gli altri dopo, «migreranno» nel continente africano: non per necessità, ma per attuare una predazione delle risorse che distruggerà i vitali equilibri delle economie agricole, commerciali e, di conseguenza, ambientali. Va così in pezzi, insomma, quello status quo che ha rappresentato per secoli un valido contrasto ai fenomeni di insabbiamento ed erosione superficiale del suolo, conseguenti alla mancanza di ostacoli all’azione del vento.

Correre ai ripari: ma come?

La prima visione su larga scala e la presa di coscienza del fatto che si stava manifestando un fenomeno di perdita di suolo fertile si ebbe a fine Ottocento nelle colonie nordafricane, da studiosi che operavano sul campo inglesi e francesi, che intuirono le potenziali minacce alle loro economie coloniali.
L’idea moderna di uno sbarramento intenzionale di «clorofilla» tra il Sahara e il resto del continente prende piede, a quanto sembra, intorno al 1952, dall’osservazione del selvicoltore e ambientalista Richard St. Barbe Baker. La barriera vegetale che ipotizza è fatta da piantumazione di chilometri di alberi, specie idonee a quel tipo di contesto estremo. Il progetto non prevede però arbusti, pascoli. Manca, insomma, quel sistema complesso di fitte interrelazioni che solo la biodiversità può garantire permettendo all’ecosistema un interazione solida e duratura.

Capire, decidere, intervenire

In quegli anni, intanto, la comunità internazionale riconosceva il fenomeno come uno dei maggiori problemi, sociali e ambientali, in vari paesi del mondo.
Arriviamo così al 1977, quando la Conferenza delle Nazioni Unite sulla desertificazione (Unccd) adotta il piano di azione per il contrasto all’avanzare del degrado del suolo (Pacd). Serviranno altri quindici anni e, nel 1992, a Rio de Janeiro, viene aperta alle firme la convenzione-quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, che entrerà in vigore nel 1994 alla conferenza di Parigi. Vi aderiscono 196 Paesi e stabiliscono regole chiare e vincolanti per il contenimento dei gas serra nell’atmosfera. In quella occasione viene anche pianificata la convenzione contro la desertificazione (Uccd), che entrerà in vigore nel 1996.
Ma bisognerà aspettare il nuovo millennio perché, nel 2002, al summit straordinario di N’djamena, in Ciad, in occasione della Giornata mondiale della lotta alla desertificazione, stabilita il 17 giugno, si discuta della Grande Muraglia Verde. Il dibattito ormai è aperto, il processo non si arresta. Nel 2005 la proposta dell’ex presidente nigeriano Olusegu Obasanjo di rilanciare l’idea verrà approvata dalla conferenza dei capi di Stato delle Comunità degli Stati del Sahel e del Sahara a Ouagadougou, in Burkina Faso, (Ggwssi). Nel 2007, con l’ufficializzazione dell’Unione Africana, si attivano i finanziamenti per iniziare i lavori: si raggiungerà la somma di 8 miliardi di dollari, in gran parte dalla Banca Mondiale, dalle Nazioni Unite, e anche da un contributo della conferenza delle parti (cop 21) di Parigi nel 2015. Nel 2008 ufficialmente cominciano i lavori.

La costruzione del muro

Lo spunto iniziale è l’idea di St. Barbe Baker: una barriera fatta di essenze arboree. Vista la complessità dell’opera, i problemi non tardano ad arrivare: far crescere alberi nel deserto non è semplice, senza contare che, per lunghi tratti, l’opera agronomica sarebbe passata per territori immensi completamente disabitati, dove diventa arduo praticare, almeno per i primi anni, le necessarie cure colturali, oltre alla difficoltà di costruire e gestire sistemi d’irrigazione adeguati dove non piove.  In alcuni regioni, poi, i frequenti scontri armati impediscono di avviare qualsiasi politica di sostegno delle popolazioni locali.
Lentamente la realtà porta a riformulare l’idea iniziale: non più una barriera compatta di essenze arboree, ma una costellazione di piccoli progetti agricoli. Gli obiettivi restano gli stessi, ma vengono perseguiti sostenendo l’agricoltura e, di conseguenza, lottando contro la povertà e l’insicurezza alimentare.

Che cosa funziona e che cosa no

C’è ancora molto da fare: i tempi di risanamento sono troppo lunghi, con una media di soli 200 mila ettari recuperati all’anno. Difficilmente si raggiungeranno gli obbiettivi Onu; molto probabilmente slitteranno a non prima del 2063.
Da considerare che le nuove visioni di realizzazione portano anche a nuove concezioni: si sta impostando una visione dove il deserto non è un male da curare, ma un ambiente naturale più semplicemente da tutelare nelle sue peculiari biodiversità.
Finora sono stati recuperati 5 milioni di ettari di suolo per stato. Il Senegal è il più attivo, con 12 milioni di alberi piantati (solo piantumazioni arboree). Anche l’Etiopia sta attuando piantumazioni di milioni di alberi, incentivate dalle politiche del nuovo governo di Abiy Ahmed, che ne fa un motivo di orgoglio, mentre il Niger, con un surplus di produzioni agricole, ha già 500mila tonnellate di grano all’anno. Laddove si sta lavorando seriamente, insomma, il muro verde riesce a contenere la forza dirompente del deserto. Non ancora, la spinta alle migrazioni. La tentazione per molti agricoltori, soprattutto se giovani, è di non reinvestire il guadagno, quando arriva, ma di abbandonare il luogo natio non appena hanno la forza economica per farlo. Questo perché ritengono che le condizioni avverse permarranno ancora per molti anni e, pertanto, conviene loro intraprendere l’avventura dello spostamento, sia interno che oltremare.

Stefano Ripert

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