Sudan spaccato tra “speranza” e “pace”, e la popolazione soffre

di claudia

di Valentina Giulia Milani

Per una beffarda scelta delle due parti che da oltre due anni si stanno contenendo il controllo del Sudan, i governi paralleli formati dall’esercito e dai paramilitari delle Rsf hanno richiamato nel loro stesso nome valori e simboli come la pace e la speranza. Ma sul campo, pace e speranza non si vedono, il disastro umanitario è enorme e i numeri di questa emergenza – dimenticata dal resto del mondo – parlano di milioni di persone in fuga, di un numero imprecisato di vittime e di violenze commesse nell’impunità.

In Sudan, in un contesto di violenze sistematiche, allarme umanitario e silenzi internazionali, la crisi istituzionale si sta aggravando. Sabato 26 luglio le Forze di supporto rapido (Rsf), il gruppo paramilitare guidato da Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemedti, hanno annunciato la formazione di un governo parallelo nelle aree sotto il loro controllo. Una mossa destinata a esasperare ulteriormente lo scontro con il governo sudanese internazionalmente riconosciuto, che domenica ha “risposto” rafforzando la propria legittimità: il primo ministro Kamil Idris ha completato la quasi totalità della squadra esecutiva con la nomina di cinque ministri e tre ministri di Stato all’interno di quello che viene chiamato “Governo della speranza” e che di fatto è il governo ufficiale di transizione (Transitional Government of Sudan). Le decisioni sono state prese a Port Sudan, divenuta la capitale amministrativa delle autorità riconosciute. Questo esecutivo si basa su emendamenti costituzionali approvati a febbraio dal Transitional Sovereignty Council e rappresenta, ad oggi, l’unico governo riconosciuto a livello internazionale.

L’annuncio del governo parallelo, non riconosciuto internazionalmente, è invece arrivato con una conferenza stampa a Nyala, nel Darfur meridionale, di cui hanno riferito giornali locali come Sudan Tribune. Le Rsf, alleate a una coalizione di movimenti ribelli nota come Sudan Founding Alliance, hanno proclamato la nascita del “Governo di pace e unità”, strutturato intorno a un Consiglio presidenziale di 15 membri, guidato dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto come Hemedti. Vicepresidente è Abdelaziz al-Hilu, storico leader della SPLM-N, ora alleato delle Rsf, mentre Mohamed Hassan al-Ta’ayshi, politico civile sudanese ed ex membro del Consiglio Sovrano di Transizione dal 2019 fino al colpo di Stato militare del 2021, è stato nominato primo ministro.

Sebbene la proclamazione del “Governo di pace e unità” ( Government of Peace and Unity) sia avvenuta in modo ufficiale, accompagnata da atti costitutivi e da una struttura amministrativa, questa nuova entità non ha alcun riconoscimento giuridico o diplomatico. Le Nazioni Unite, l’Unione Africana, l’Unione europea e i principali attori internazionali continuano a riconoscere come legittimo solo il governo sudanese con sede a Port Sudan. Le autorità sudanesi hanno definito il nuovo esecutivo “una costruzione fittizia” e un tentativo di secessione.

Il percorso che ha portato alla nascita di questo esecutivo parallelo è stato avviato nei mesi scorsi: il 22 febbraio, a Nairobi, in Kenya, le Rsf e i gruppi alleati hanno firmato una “carta costituzionale transitoria”, che delinea un sistema federale basato su otto regioni e attribuisce poteri legislativi ed esecutivi al nuovo governo. Il documento – noto come Sudan Founding Charter – è stato adottato ufficialmente il 4 marzo dalla Sudan Founding Alliance e rappresenta il fondamento giuridico interno su cui si basa la nuova entità. L’iniziativa ha suscitato forti critiche a livello internazionale. Il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, aveva avvertito che la decisione avrebbe potuto aggravare il conflitto.

Annunci e proclamazioni de facto che hanno portato a tensioni esterne, oltre che interne: il Kenya, che ha ospitato a Nairobi l’incontro delle Rsf di febbraio, negli ultimi mesi è finito al centro delle tensioni diplomatiche. Khartoum ha accusato Nairobi di aver sostenuto politicamente l’iniziativa delle Rsf: il portavoce del governo ha parlato apertamente di “atto ostile” e “interferenza grave nella sovranità sudanese”. Il ministero degli Esteri del Kenya ha da parte sua dichiarato che il Paese ospita una numerosa comunità di rifugiati sudanesi e che il suo ruolo è da interpretarsi esclusivamente come facilitatore del dialogo, senza “motivi nascosti” o supporti alle Rsf.

Accuse sono emerse anche contro gli Emirati Arabi Uniti. Secondo varie inchieste giornalistiche e rapporti dell’Onu, Abu Dhabi avrebbe fornito armamenti alle Rsf, in violazione dell’embargo internazionale. Secondo il New York Times, voli cargo partiti dagli Emirati avrebbero trasportato equipaggiamenti militari verso basi in Ciad, da cui le forniture sarebbero state trasferite via terra nel Darfur. Gli Emirati respingono le accuse, parlando di aiuti umanitari, ma analisti e fonti diplomatiche sottolineano il ruolo cruciale del loro sostegno alla resilienza militare delle Rsf.

Del resto, di fatto in gioco non c’è solo il potere politico, ma anche il controllo delle principali risorse economiche del Paese: l’oro, il petrolio – in particolare gli oleodotti che attraversano il Sudan trasportando il greggio dal Sud Sudan fino a Port Sudan – e la gomma arabica, di cui il Sudan è uno dei maggiori produttori mondiali. Queste ricchezze, anziché rappresentare un volano per la ricostruzione, sono oggi fattori centrali del conflitto e oggetto di spartizione tra le fazioni in guerra, con gravi conseguenze per la popolazione civile e per la tenuta dello Stato.

Così, il Sudan risulta un Paese territorialmente frammentato, dove due centri di potere rivali esercitano un controllo di fatto su porzioni distinte del territorio nazionale. Le Forze armate sudanesi (Saf), guidate dal generale Abdel Fattah al-Burhan, mantengono il controllo della parte orientale del Paese, incluse le città costiere sul Mar Rosso come Port Sudan, Gedaref e Kassala, oltre ad ampie aree del nord e del centro. Port Sudan è divenuta la sede amministrativa e diplomatica del governo ufficiale, che vi ha trasferito ministeri, ambasciate e agenzie statali dopo l’iniziale perdita della capitale Khartoum, poi progressivamente riconquistata ad aprile.

Le Rapid Support Forces (Rsf), comandate da Mohamed Hamdan Dagalo, detengono invece ampie porzioni del Darfur, in particolare nelle regioni occidentali e meridionali, oltre a territori del Kordofan meridionale, del Nilo Bianco e della regione centrale del Paese. La presenza delle Rsf è inoltre rafforzata dalla recente alleanza con il movimento SPLM–N guidato da Abdelaziz al-Hilu, che controlla parti strategiche del Sud Kordofan e delle Nuba Mountains.

In molte delle aree rurali contese, il controllo territoriale si alterna o è parziale, spesso dipendente dalla presenza militare e dalle linee di rifornimento. Alcune zone sono invece diventate terra di nessuno, fuori da ogni controllo stabile, dove imperversano milizie locali, criminalità organizzata e gruppi tribali armati.

In questo contesto, chi paga il prezzo più alto, come sempre, sono i civili. Secondo i dati aggiornati dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), più di 7,7 milioni di persone sono sfollate all’interno del Paese, mentre altre 4 milioni hanno cercato rifugio oltreconfine. Alla catastrofe umanitaria si aggiunge una crisi alimentare di proporzioni drammatiche: l’Unicef stima che circa 17 milioni di sudanesi soffrano di grave insicurezza alimentare, inclusi 3,6 milioni di bambini sotto i cinque anni affetti da malnutrizione acuta, di cui oltre 600.000 in condizioni gravi. In alcune regioni come il Darfur Settentrionale, i tassi di malnutrizione infantile sono raddoppiati negli ultimi mesi, segno di un collasso totale del sistema sanitario e della mancata protezione umanitaria.

La proclamazione di un governo parallelo nelle aree controllate dalle Forze di supporto rapido (Rsf) solleva pertanto timori non solo sul piano istituzionale, ma anche per le gravi implicazioni umanitarie e giuridiche. Il rischio è che una simile iniziativa possa offrire una copertura pseudo-legale alle violenze sistematiche commesse dal gruppo paramilitare, già accusato da organizzazioni internazionali di crimini di guerra, massacri etnici e violenze sessuali su larga scala, in particolare nelle regioni del Darfur. La creazione di strutture amministrative autonome e di un esecutivo formalizzato potrebbe essere utilizzata dalle Rsf per consolidare il proprio controllo territoriale e rivendicare legittimità politica, distogliendo l’attenzione dalla responsabilità individuale e collettiva per gli abusi perpetrati. In assenza di un sistema giudiziario indipendente e con l’accesso umanitario ostacolato, tale mossa rischia di trasformarsi in uno strumento per normalizzare l’impunità.

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