Se questo è un Masai

di AFRICA
Masai

I celebri pastori della savana, diffusi tra Kenya e Tanzania, vengono raffigurati come fieri e autentici guerrieri, custodi di costumi e tradizioni imperturbabili nel tempo. Un’altra rappresentazione distorta dall’esotismo e dai pregiudizi

Provate a travestirvi da centurione romano e passeggiate intorno al Colosseo. Sarete soggetto di ripresa foto-video da parte di migliaia di turisti. Insistendo un po’, potreste guadagnare qualche soldo. Avete appena partecipato al fenomeno che gli antropologi definiscono ethnoshow, la rappresentazione cultural-farsesca del sé di intere popolazioni affamate. Tipo “notte della taranta”, per intenderci: chi si fa mordere dalla scolopendra per danzare?

Prendete i Masai. Nell’immaginario dell’Occidente essi sono: pastori nomadi di savana tra Kenya e Tanzania; razziatori e guerrieri armati di lancia; gente che, per divenire uomo, deve abbattere un leone con le proprie mani e farsi un’acconciatura con la criniera; uomini, donne e bambini abituati a vivere orgogliosamente in capanne ricoperte di sterco di vacca, circondati da mosche e bovini che amano alla follia; e, il che non guasta per la parte video, alti, magri, belli, vestiti di stoffe rosse e coperti di collane di perline; sono anche capaci di danzare a grandi balzi verticali, in trance. La domanda è: un Masai grasso (ce ne sono: date un’occhiata ai loro leader politici; d’altra parte, avete mai visto un politico africano magro?), uno che studia medicina a Londra, in giacca blu e cravatta regimental; uno che evita accuratamente le deiezioni bovine – è costui davvero un Masai?

Sguardo miope

Ogni cultura si regge sui cliché, uno specchio dell’anima offerto all’occhio altrui. Quasi sempre, il cliché è autocostruito su basi fasulle e narcisistiche (tutte le narrazioni dei vari nazional-populismi lo sono, per opportunismo politico e organizzazione del consenso), come avviene nei profili sui social. Queste forme per presentarsi agli altri diventano spesso trappole; come cantava Bob Dylan in Ballad in Plain D (1962): «Are birds free from the chains of the skyway?». Se neppure gli uccelli sono liberi dalle catene del cielo, i Masai si trovarono a fare i conti con la propria immagine, un cliché che si rivelò pericoloso quando arrivarono gli amministratori coloniali a fine Ottocento. A questi non parve vero di avere degni avversari, ovviamente trascurando il fatto che loro erano armati di fucili a ripetizione e mitragliatrici, che usarono contro le lance dei Masai.

Il cliché fece qualche morto. In seguito, fu lo stilema della pastorizia a uccidere altri Masai. La pastorizia a largo raggio prevede territoti aperti, assenza di confini, libero accesso alle risorse. Niente da fare: per i Masai nacquero da subito politiche di pastorizia confinata (ranching) e azioni di erosione territoriale a favore dell’agricoltura estensiva. Non potendo evitare le zecche tramite le transumanze e costretti a densità eccessiva di bestiame e conseguente sovrappascolo, il nomadismo divenne condizione miserevole, marginalizzata anche a livello sociale.

In posa per i turisti

L’arrivo del turismo di massa in Kenya e Tanzania diede un’innovativa chance di sopravvivenza ai Masai: la rappresentazione di sé stessi secondo cliché. Contemporaneamente successe l’identica cosa ai Tuareg del Sahara, anch’essi alti, belli e predoni, oltre che razzisti e trafficanti di schiavi. I giovani Masai che vivevano lungo le rotte turistiche (la riserva del Masai Mara viene da loro data in affitto al governo del Kenya, mentre in Tanzania hanno il permesso di pascolare tra zebre e leoni nel cratere di Ngorongoro) rispolverarono le tarmate criniere di leone (peraltro impossibili da ripristinare, date le severissime leggi contro la caccia) e le lance. I guerrieri si pitturarono di ocra rossa («facite ‘a faccia feroce!» di napoletana memoria) e cominciarono a vendere daghe agli assatanati dell’autenticità “tribale”, oltre alle fotografie di sé medesimi.

Fino agli anni Settanta, prima del boom dei viaggiatori d’avventura, la fotografia era un anatema per i Masai: ricordo un atterrito turista che mi narrò di aver viso partire un paio di lance verso il suo autobus stracolmo di attrezzature fotografiche.

Mondo che cambia…

Ovviamente, all’interno delle savane e sui monti esistono e resistono i Masai “autentici”. Il loro mondo è comunque mutato, assieme alle loro tuniche rosse, divenute a quadretti per questioni di mercato, oltre che di scelta estetica. In realtà, i Masai adorano le innovazioni tecnologiche, a modo loro.

Cominciarono con gli scaldamuscoli. Chissà dove li hanno visti. Fatto sta che i guerrieri (il-muran) iniziarono a fare incetta di calze di lana a colori bestiali, per poi tagliarne i pedalini e avvolgere il rimanente alle caviglie. Poi arrivarono le girandole di plastica sulla fronte (recentemente sostituite da roselline artificiali). Per aumentarne l’effetto, i guerrieri si impossessarono della tecnologia della bicicletta. Ora si aggirano sulle piste rosse con decorazioni nastrate al telaio e al carter, manubrio foderato di perline e girandola a tutta birra.

Più inquietanti sono la daga al fianco e il kalashnikov AK-47 a tracolla. Non parliamo degli smartphone. Nel 1968, quando cercai di raggiungere le famiglie masai a Pawaga, in Tanzania, dovetti traversare il fiume Ruaha in un cestello appeso sui coccodrilli, tirato a mano da me stesso.

Marchio di fabbrica

Oggi le comunicazioni sono istantanee, via rete mobile. I Masai hanno imparato a sfruttare la tecnologia dei cellulari: usano le mappe satellitari per localizzare acqua o pascoli, consultano il meteo, esaminano le quotazioni dei mercati del bestiame. E naturalmente si scattano selfie, che poi pubblicano sui propri profili social.

All’arrivo dei primi telefoni mobili, incontrai alcuni amici masai. Si aggiravano come impazziti dicendo in litania: «Qui non c’è campo, qui non c’è campo!». Infine ci siamo avvicinati a una baracca in legno a forma di cabina telefonica britannica. «Qui c’è campo», hanno detto i due cialtroni. E si sono messi a inviare sms dall’interno della baracca, assolutamente vuota. «Perché proprio qui dentro?», chiesi cercando inutilmente fili, antenne o quant’altro. «Ci si può appoggiare su quest’asse, vedi?», spiegarono.

Fatto sta che il cliché dei Masai è divenuto un marchio di fabbrica. Un esperto neozelandese di proprietà intellettuale sta catechizzando i Masai sui loro “diritti d’autore”, che renderebbero almeno una decina di milioni di dollari l’anno. Lasciando perdere i diritti dei Maori alla loro haka rugbistica, il suddetto esperto dovrebbe chiarire a quale persona Masai andrebbe riferito lo stilema “originario”: quello delle perline arrivate da Venezia tramite i mercanti arabi?

Copertoni ai piedi

La faccenda più esilarante è successa con le famose scarpe “masai”. Tali calzature – dette “a barchetta” – vennero ideate dall’ingegnere svizzero Karl Müller. A quanto pare funzionano per ridurre la cellulite, tonificare i muscoli, modellare il corpo, sistemare problemi di schiena e cervicale. La leggenda narra che Müller abbia disegnato le scarpe dopo aver visto camminare i Masai, diritti come pali e resistenti come dromedari.

Il segreto, secondo gli esegeti, sta nel fatto che i Masai si muovono su ambienti diversificati (roccia, sabbia, erba, pianura, montagna) e «lo fanno a piedi scalzi». Balle. I Masai hanno sempre portato i sandali. La forma a barchetta della suola delle costosissime scarpe di Müller deriva dai copertoni che, in tempi recenti, sono divenuti di moda tra i Masai per la confezione dei sandali.

Un tempo le suole erano sottili, come la pelle di ippopotamo, vacca o rinoceronte, materia prima tradizionale. Poi i Masai cercarono di imitare le scarpe tecniche degli europei, ispessendo la suola. A quel punto, il copertone era così rigido da mantenere la sua forma tonda, pur con il peso del corpo. Anch’io uso i sandali di copertone. Come i nobili britannici, chiedo a un Masai di darmi i suoi sandali vecchi in cambio di un paio nuovo. In tal modo evito di affettarmi le dita con le tele ferrate e di cuocermi la pianta sulla gomma nuova. Ma quando ho provato a mettere i sandali “a barchetta” ho rischiato, nell’ordine, di cadere (in avanti o indietro, a seconda del rollio), di spezzarmi una caviglia (beccheggio laterale), di morire di tetano, di scuoiarmi i piedi.

(testo di Alberto Salza – foto di Afp / Panos / Marco Garofalo)

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