di Stefano Pancera
Venerdì 27 giugno a Washington è stato firmato un accordo di pace tra Congo e Ruanda, e Donald Trump rivendica il merito di una svolta storica. Ma dietro la diplomazia si gioca la partita per le immense risorse minerarie africane.
Donald Trump si augura presto di ospitare alla Casa Bianca i capi di stato della Repubblica Democratica del Congo e del Ruanda per celebrare l’accordo di pace che porrebbe fine al lungo conflitto tra i due paesi.
Con l’ambizione smisurata di risolvere un conflitto vecchio di oltre trent’anni il cowboy di Washington ha commentato sul suo social network il 20 giugno: “Non riceverò un premio Nobel per questo, ma la cosa più importante è che le persone lo sappiano”.
L’annuncio di un prossimo incontro tra presidenti lo ha dato “mister Africa” Massad Boulos – l’uomo di Trump sul continente – poco prima della storica intesa di pace firmata venerdì 27 giugno a Washington. Un accordo di pace che – almeno sulla carta – promette di ridurre le tensioni nella martoriata regione del Nord e Sud Kivu, nell’est della RDC.
Dopo anni di tentativi falliti da parte dell’Unione Africana e delle organizzazioni regionali – dalla SADC all’Ecowas – a riportare la calma tra Repubblica Democratica del Congo e Ruanda, ora è stata la diplomazia americana “made in Trump” a risolvere il dossier. Con un coinvolgimento attivo del Qatar.

Cosa prevede l’accordo
Nello specifico l’accordo prevede: Cessate il fuoco immediato e verificabile, con l’impegno di entrambe le parti a interrompere ogni forma di ostilità. Rispetto dell’integrità territoriale: il Ruanda riconosce ufficialmente la sovranità della RDC su tutto il proprio territorio, compreso il Nord Kivu, oggi in parte sotto controllo del movimento ribelle M23 (accusato da ONU e USA di ricevere sostegno da Kigali).
Disimpegno e disarmo dei gruppi armati non statali, con la possibilità di un’integrazione condizionata nelle forze di sicurezza regolari congolesi.
Creazione di un Meccanismo Congiunto di Coordinamento per la Sicurezza, con missioni di monitoraggio sul campo che includeranno osservatori internazionali e rappresentanti delle due parti.
Facilitazione del ritorno dei rifugiati e degli sfollati interni.
Accesso umanitario garantito, per consentire alle ONG e alle agenzie ONU di portare aiuti nelle aree oggi sotto assedio.
Avvio di un quadro di integrazione economica regionale, con prospettive future di cooperazione tra RDC e Ruanda su commercio, energia e infrastrutture.
Ma nonostante i toni ottimistici di Washington, gli analisti restano cauti. Peccato infatti per la mancata inclusione dell’M23: il gruppo ribelle che da mesi tiene sotto scacco Goma e altre città del Nord Kivu non ha partecipato direttamente ai colloqui. Senza il loro coinvolgimento, resta il dubbio su chi e come li convincerà a deporre le armi.
Questo per altro non è il primo tentativo di pace tra Congo e Ruanda: negli ultimi dieci anni, almeno cinque accordi sono stati firmati e poi sistematicamente disattesi. Inoltre il ruolo di Kigali rimane ancora ambiguo: il governo Ruandese ha sempre negato di sostenere l’M23, ma il legame tra i ribelli e l’esercito ruandese è più che evidente. Dunque, senza un vero meccanismo di garanzia serio e senza un monitoraggio da parte della comunità internazionale, il rischio è che l’accordo resti solo un esercizio di diplomazia di facciata. “Un accordo tra speranze e sfide” titola infatti il quotidiano francese Le Monde.
“Abbiamo visto troppi cessate il fuoco violati, troppi impegni insoddisfatti. Ciò che fa la differenza oggi è l’impegno degli Stati Uniti. Ma questo da solo non garantisce affatto l’applicazione sul campo”, ha ribadito alla BBC Mvemba Phezo Dizolele, ricercatore congolese presso la Johns Hopkins School of Advanced International Studies, negli Stati Uniti.
Ma un Trump trionfante ha annunciato personalmente l’accordo sui suoi canali social, definendolo “un grande giorno per l’Africa”.

Oltre questa mirabolante mediazione a stelle e strisce, si intrecciano interessi geopolitici, rivalità economiche e il futuro di una delle regioni più instabili del continente: i Grandi Laghi.
Un “desiderio di pace” che in realtà sancisce una lotta per l’influenza geopolitica di Washington, che si deve comunque garantire catene di approvvigionamento minerarie.
Dietro le quinte, infatti c’è molto di più. Le immense ricchezze minerarie del Congo – cobalto, tantalio, coltan, litio – restano al centro della contesa tra le grandi potenze. La Cina ha da tempo consolidato la sua presenza in Congo con contratti miliardari. Risale al 2008 l’accordo Sicomines e nel 2024 è stato rinegoziato un contratto da 5,8 miliardi di dollari che prevede investimenti cinesi in infrastrutture per 7 miliardi di dollari nei prossimi 20 anni. Ma oggi Washington sembra cercare nuovi spazi.
Ma come? I paesi africani non erano “shithole countries”! (Trump nel gennaio 2018 durante una riunione alla Casa Bianca li apostrofò “paesi del buco del c…”). Ma si sa, Donald Trump sembra spesso parlare a caso e ad agire come può.
“La presenza americana in Africa sta scomparendo”, ha dichiarato Félix Tshisekedi durante un’intervista al canale americano Fox News, lo scorso marzo, invitando gli americani a correggere il tiro. È stato ascoltato.

Gli Stati Uniti – impegnati nel finanziamento di grandi infrastrutture, come il corridoio di Lobito – hanno interessi strategici nella regione, soprattutto legati all’estrazione del coltan, del cobalto e di altre terre rare, fondamentali per l’industria tech globale. Il Congo produce l’80% del cobalto mondiale, e nove delle dieci maggiori miniere di cobalto al mondo si trovano nella regione meridionale del Katanga.
Un accordo minerario dovrebbe consentire agli investitori americani di accedere a territori in cui i cinesi sono meno presenti, come il Nord-Kivu, il Sud-Kivu e il Tanganica. Le aziende cinesi sono più attive nell’Alto Katanga o nel Lualaba, dove sfruttano rame e cobalto. Molti altri siti sembrano interessare gli americani. In particolare la miniera di coltan di Rubaya, sotto il controllo dei ribelli del M23 dall’aprile 2024.
E proprio questo attivismo americano alimenta il dibattito politico interno a Kinshasa. Non pochi accusano il presidente Félix Tshisekedi di “svendere” le risorse del Paese, come sarebbe già avvenuto con Pechino. E c’è chi parla apertamente di “nuova corsa all’Africa”, con Stati Uniti e Cina in piena competizione per il controllo delle materie prime necessarie alla transizione energetica e all’industria tecnologica globale.
La domanda forse è questa: se davvero ci sarà a chi conviene questa pace?