N’Djamena a ferro e fuoco, testimonianza dell’attivista Djiraibe

di claudia
Delphine Djiraibe

Di Céline Camoin

Colpi d’arma da fuoco e rumori di fuggi fuggi sono stati uditi tutta la notte in alcuni quartieri di N’Djamena, la capitale del Ciad. A fare il punto con Africa rivista sugli avvenimenti di ieri, l’avvocata Delphine Djiraibe, nota attivista della società civile, molto critica nei confronti della giunta al potere.

Djiraibe, dalla sua abitazione, ha assistito a scene caotiche: giovani scesi in strada in segno di protesta, erezione di barricate da parte dei manifestanti, e un massiccio intervento delle forze dell’ordine, che hanno sparato colpi con pallottole di piombo, nonché gas lacrimogeni. “Si sparava in ogni direzione, l’intero mio quartiere era coperto dal fumo, quattro granate lacrimogene sono cadute anche nel cortile di casa mia”, dice l’intervistata. “Sapremo qualcosa in più sul bilancio in giornata”, precisa.

I bilanci provvisori circolati da ieri parlano di una cinquantina di morti, secondo il primo ministro, e centinaia di feriti. “Pare che ci siano stati numerosi arresti, ma siamo in attesa di chiarimenti”. Alcune testimonianze – non confermate – riportano che  veicoli privati con persone armate a bordo abbiano girato in città e sparato proiettili in direzione di persone che cercavano di mettersi al riparo.

Il 20 ottobre coincideva con la data prevista di conclusione della transizione, una transizione che nel frattempo è stata prorogata di altri due anni, sotto la guida del figlio dell’ex presidente Idriss Deby Itno. “La protesta era stata preparata da tempo”, precisa Djiraibe, ricordando che il suo movimento, come diverse altre organizzazioni e partiti, si erano opposti al dialogo nazionale nelle modalità in cui si è tenuto. “Le condizioni non erano favorevoli, non abbiamo partecipato. Auspicavamo che il presidente dichiarasse la fine della transizione, come inizialmente previsto, in questo 20 ottobre”, precisa.

Le decisioni prese alla fine del dialogo sono state invece di altro taglio: proroga della transizione di 24 mesi, permanenza di Mahamat Idriss Deby alla presidenza, persino la possibilità per i leader della transizione di candidarsi alle prossime elezioni. La nomina a primo ministro di Saleh Kebzabo, un veterano della politica considerato simbolo dell’opposizione, non ha accontentato i detrattori delle autorità in carica. “Sono le stesse persone, quelle che hanno accompagnato questo sistema al potere per 32 anni e che ha portato il Ciad nel baratro, che ritroviamo alla guida. Kebzabo è ormai considerato da molti come un traditore, che ha accompagnato un dialogo che in realtà i cui esiti erano già previsti in partenza. Non sono state discusse questioni fondamentali, come la forma dello Stato, il disagio della popolazione, la fine di questo sistema al potere. Questi erano gli argomenti da affrontare”, ritiene Djiraibe.

“Il popolo ne ha abbastanza”, afferma l’avvocata, “vuole un cambiamento, e un cambiamento senza coloro che hanno fatto parte del problema. Vogliamo sangue nuovo, e ne abbiamo tanto in Ciad”.

A tirare le fila della campagna di disobbedienza civile,  la coalizione Wakit Tamma, piattaforma di ong e partiti politici, l’associazione dell’avvocata Djiraibe Public interest law center, l’associazione ciadiana per la promozione dei diritti umani, Tournons la page, l’associazione delle donne per la cultura della pace e lo sviluppo.

Le autorità, dal canto loro, hanno accusato i manifestati e i loro leader di voler fomentare la violenza, addirittura destabilizzare il Paese, e hanno imposto lo stato d’emergenza in 4 città. “Sono cose già viste. Ogni volta che si svolgono manifestazione, sono represse nel sangue, allorché i giovani protestano a mani nude”, sostiene l’attivista. “È sono quando si sentono attaccati che resistono e si difendono come possono, magari a sassaiole, di fronte alle armi da fuoco. Questo dimostra bene a che punto la gente è stufa. Continua a resistere anche quando cadono i loro compagni”. Sono le forze dell’ordine, insiste, a sparare sulla gente, “senza alcuna compassione” e senza ascoltare le richieste di cambiamento.

L’attivista deplora una mancanza di azioni da parte della comunità internazionale, che invita a reagire e a non sostenere un regime non democratico e violento. “Siamo stanchi di questa comunità internazionale che dice di sostenere il dialogo quando si sa benissimo che è ipocrisia. Sono le stesse persone che si sono messe insieme per legittimare un colpo di Stato e condividersi i benefici. L’Italia fa parte dell’Unione Europea, deve sapere cosa sta succedendo qui”, lamenta Delphine Djiraibe.  “Quanto morti ci vorranno ancora? Quante vittime prima di cambiare posizione?” è la drammatica domanda a cui non si possono, al momento, dare risposte. 

Lo stato d’emergenza è stato istituito con decreto presidenziale ieri a N’Djamena, Moundou, Doba e Koumra, quattro località teatro di manifestazioni contro le autorità di transizione del Ciad. Secondo il primo ministro del nuovissimo governo di transizione, Saleh Kebzabo,  il bilancio delle violenze è pesantissimo: almeno 50 morti e 300 feriti, nelle quattro località. Tra le vittime, secondo la versione ufficiale, ci sarebbero sia manifestanti che membri delle forze dell’ordine.

Il governo, ha detto il primo ministro, “porterà ordine su tutto il territorio e non tollererà più gli eccessi da qualunque parte provengano”. Ha denunciato un tentativo di rivolta armata per rovesciare potere. I responsabili, gli insorti, ha detto Kebzabo, saranno assicurati alla giustizia. Kebzabo, già storica figura dell’opposizione, ha direttamente attribuito le violenze alla “sete di potere di Succes Masra e Yaya Dillo”, riferendosi a due oppositori che non hanno partecipato al dialogo nazionale inclusivo21.

La dichiarazione dello stato di emergenza autorizza i governatori delle province interessate ad adottare tutte le misure necessarie ai sensi di legge. Un coprifuoco entra in vigore tra le 18.00 e le 06.00.

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