Burundi – Onu: «Diritti dell’uomo, violazioni massicce»

di Enrico Casale
violenze in sierra leone

di Giovanni Gugg

Il 17 maggio scorso in Burundi si è tenuto un referendum costituzionale definito «farsa» da più esponenti della comunità internazionale: il 73% degli elettori ha votato «Sì» per una modifica che ha aperto la strada al presidente Pierre Nkurunziza, al potere dal 2005, di governare fino al 2034. Il risultato era del tutto scontato, anche perché non c’è stato dibattito pubblico circa il quesito referendario, né è stata data libertà d’espressione all’opposizione. In altre parole, si è trattato dell’atto più recente di una crisi politica e sociale deflagrata alla fine di aprile del 2015, quando Nkurunziza annunciò la sua candidatura per un terzo mandato presidenziale, già allora forzando palesemente la Costituzione che era stata firmata nel 2005 con gli Accordi di Pace di Arusha, i quali posero fine alla guerra civile scoppiata nel 1993. In questi ultimi tre anni 400.000 burundesi sono scappati all’estero, duemila sono i morti della repressione governativa, migliaia gli arresti arbitrari e le sparizioni, senza contare i casi di tortura e di stupro.

Violazioni dei diritti umani
Secondo un rapporto dell’organizzazione non governativa Human Rights Watch, le forze di sicurezza e gli Imbonerakure, ossia l’ala giovanile del partito di maggioranza Cndd-Fdd, hanno alimentato paura e intimidazioni in vista del voto referendario, prendendo di mira gli oppositori e chiunque fosse sospettato di un qualche sentimento anti-governativo. È stato accertato che solo durante la campagna referendaria siano state uccise almeno 15 persone. Dopo un mese, il medesimo dato è stato evidenziato dalle Nazioni Unite, che hanno denunciato violazioni di massa dei diritti umani in Burundi: esecuzioni sommarie, sparizioni e, ancora, arresti arbitrari e torture. La presentazione del rapporto si è tenuta in occasione della 38esima sessione del Consiglio dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite a Ginevra, il 27 giugno, durante la quale i membri della Commissione d’inchiesta hanno affermato di aver ricevuto «segnalazioni di numerosi arresti di persone che hanno espresso “No” al referendum, che hanno tentato di riunirsi per discutere le modifiche alla Costituzione, o che si sono rifiutate di aderire al Cndd-Fdd». Secondo gli estensori del rapporto, inoltre, «le detenzioni a cui hanno fatto seguito tali arresti hanno provocato casi di tortura e maltrattamenti». La britannica Francoise Hampson, una delle tre componenti della Commissione, ha sottolineato che la situazione in Burundi rimane molto preoccupante, nonostante dopo una recente dichiarazione del presidente Nkurunziza che, inizialmente, aveva dato un certo sollievo a diversi osservatori internazionali: in occasione della promulgazione ufficiale della nuova Costituzione, il 7 giugno, il Capo di Stato aveva detto che al termine del suo mandato, nel 2020, sosterrà il futuro Presidente della Repubblica, ma ad una lettura più attenta e, soprattutto, in base alle mancate precisazioni richieste da più parti, l’Onu ha messo in dubbio la credibilità di tale affermazione, notando come manchi un chiaro e fermo impegno da parte del leader in carica a non candidarsi ancora una volta.

La milizia paramilitare degli Imbonerakure
La preoccupazione più urgente da parte delle Nazioni Unite, tuttavia, resta quella nei confronti degli Imbonerakure, la milizia paramilitare dei giovani del partito al potere, ritenuti i principali responsabili di sparizioni ed esecuzioni sommarie commesse durante la campagna referendaria. Durante la presentazione ginevrina, il senegalese Doudou Diène, altro componente della Commissione d’inchiesta, ha affermato che «gli Imbonerakure agiscono in complicità con le autorità burundesi». Essi, ha aggiunto la camerunese Lucy Asuagbor, la terza componente della Commissione, perpetuano metodi d’intimidazione «con l’avallo di agenti statali o, comunque, non vengono inquisiti quando agiscono di propria iniziativa». Questa milizia ha assunto un’importanza sempre crescente nell’apparato repressivo sviluppato dal 2015: gli Imbonerakure sorvegliano il Paese, impongono le istanze dello Stato e/o del Cndd-Fdd in ogni “collina”, specie se vi risiedono oppositori – reali o presunti; violentano e intimidiscono, macchiandosi spesso di atti di tortura e trattamenti crudeli, inumani o degradanti; lanciano operazioni di polizia ed effettuano campagne di recrutamento forzato per il loro partito.

L’inchiesta della Corte Penale Internazionale
Questo stato delle cose non è una novità, perché già il 25 ottobre 2017 era stata avviata un’inchiesta sul Burundi da parte della Corte Penale Internazionale, proprio in merito alle violazioni dei diritti umani nel Paese africano. In seguito a quella procedura, Nkurunziza aveva ritirato il suo Paese da tale organismo: primo caso al mondo, poi seguito dalle Filippine di Duterte nel marzo 2018, in quello che sembra un progressivo smantellamento delle istituzioni internazionali da parte di regimi diversi e lontani, eppure accomunati dall’insofferenza verso ogni forma di controllo e garanzia. Sulla scia di questa contrapposizione internazionale, il governo burundese ha rifiutato il recente rapporto dell’Onu, bollandolo come un insieme di «considerazioni politiche», le quali – ha sostenuto Tabu Renovat, ambasciatore del Burundi a Ginevra – «dimostrano l’eccesso di zelo e la manipolazione che caratterizza la Commissione».

I rifugiati all’estero
Comunque vadano a finire queste tensioni interne ed esterne al Burundi, quel che è certo riguarda una considerevole fetta della società burundese: 396.000 persone fuggite dal Paese dal 2015 e che hanno trovato riparo nei campi profughi in Tanzania, Rwanda, Repubblica Democratica del Congo e Uganda. Si tratta di un vero e proprio “popolo errante” composto per una metà di bambini – spesso soli, circa il 6% di tutti i minorenni burundesi rifugiati all’estero – che, nonostante le difficoltà, le minacce e gli ulteriori spostamenti da un Paese all’altro della Regione dei Grandi Laghi, resiste alla precarietà esistenziale e lavorativa, alle epidemie e alla miseria, all’assenza di scolarizzazione e alla scarsità dei mezzi a disposizione, nonché alle remote possibilità di rientro nel Paese di origine. I dati dell’Unhcr e dell’Unesco sono eloquenti e il fabbisogno per poter assistere così tante persone in condizione di tale vulnerabilità è altrettanto chiaro nella sua inesorabile crescita.

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