Boubacar Touré Mandémory, il colorista militante

di AFRICA

Colorista, così The Leica Camera Blog definisce Boubacar. E in effetti la prima cosa che ci colpisce nelle sue foto sono i colori, quei colori pieni, vivaci, che tanto ci dicono della realtà e della mentalità africana.
Eppure Boubacar, nato nel 1956, parte come fotografo nella metà degli anni Settanta con il bianco e nero, studia Ansel Adams, il suo “metodo zonale”, usando la TX 400 Kodak sviluppata in D76 (sento i sospiri di nostalgia di tanti fotografi), ma ad un certo punto vira al colore, convinto che il bianco e nero non si adattasse a tutti i soggetti e facendo del colore in sé un soggetto. Lavora sul colore con le classiche Kodachrome e Fuji del tempo, saturandole con sottoesposizioni, che permettono la migliore resa dei colori d’Africa che porta con sé.
Successivamente Boubacar, che definisce sé stesso un “fotodidatta”, inizia a studiare le inquadrature e qui mette a frutto la sua grande passione per il cinema e in particolare per gli “spaghetti western”. E nascono quindi le foto scattate da terra, perché non riesce a immaginare di fotografare la parte superiore senza la parte inferiore, e nascono le foto scattate per strada. In strada perché la strada è ricca di eventi “disordinati” e casuali, e in Africa tutto accade per strada; è una fonte inesauribile di ispirazione.
«Per un fotografo – dice – è uno spazio eccellente per padroneggiare l’inquadratura, la composizione e anche la messa in scena. Nelle strade africane, poi, le cose si muovono in tutte le direzioni! È questo che mi costringe a lavorare spesso con un forte grandangolare».
I suoi primi lavori si sono concentrati sulla fotografia industriale, pubblicità, moda e ritratti, ma comprende presto che questo non avrebbe portato a nulla se non a guadagnare un po’ di soldi e a far piacere a chi veniva fotografato. Cosa fare, quindi, perché la fotografia diventi un efficace mezzo di comunicazione che possa portare consapevolezza e avere un significato?
Comincia quindi a narrare la vita della città dove vive, Guédiawaye, e questa narrazione prende una parte importante dei suoi lavori. Uno stile molto più vicino al reportage, ma che allo stesso tempo ha qualcosa in più. Diventa una fotografia di denuncia, militante. Questa ambivalenza tra l’informazione e la ricerca sistematica di un’estetica è al centro delle sue preoccupazioni: mostrare la società con una percezione più adeguata della sua realtà – le persone, il loro ambiente e i diversi stili di vita – pur rimanendo il più creativo possibile. Crea l’agenzia Ecomar Visuel nel 1989, poi il Mese della Fotografia di Dakar nel 1994 (che sarà un preludio ai Rencontres de Bamako). Ecomar Visuel nasce dalla consapevolezza che la fotografia è in parte sostenuta dalla stampa, dalla pubblicità, dall’industria, dal mecenatismo o dalla sponsorizzazione aziendale e che nulla di tutto ciò era stato sviluppato in Africa. Dice Boubacar: «Quindi si trattava di raggruppare i fotografi con una curva artistica per creare un gruppo di ricerca incentrato sulla fotografia nera e che sarebbe culminato nella creazione di un’agenzia fotografica. Questa organizzazione doveva appartenere a noi e servire come mezzo di distribuzione, prima di tutto a livello locale, per un tipo di fotografia che finora era destinata solo all’esportazione. Questa organizzazione alternativa doveva basarsi sulla sinergia e profilarsi secondo criteri etici ed economici per fondare un nuovo codice morale fotografico. Anche se non è durata molto, è stata un’esperienza davvero interessante per tutti noi».
È stato anche colui che ha creato il servizio fotografico dell’Agenzia di stampa panafricana (Pana) nel 2000. «Dare ordini ai fotografi non rientrava nel mio profilo – dice –. Non voglio essere il direttore di niente!».
Ma il fotodidatta diventa una guida, e con altri fotografi inizia un progetto: una missione fotografica su un soggetto particolare: Rufisque!

Ogni sabato, per tre mesi, ha preso l’autobus con dodici giovani fotografi per Dakar, in direzione di Rufisque. Aveva iniziato un lavoro personale su questa città vicino a Dakar, che lo aveva interessato a lungo a causa del suo patrimonio architettonico e del suo stato di degrado. Ha aperto il suo progetto ad altri, per trarne sguardi incrociati su uno stesso soggetto.
Il workshop “Regards sur la ville de Rufisque” è stato molto popolare in Senegal, per la sua qualità, ma anche per il suo aspetto cittadino. Si trattava di interrogare i politici sul loro modo di gestire lo spazio urbano, spiega Boubacar, «di denunciare il laissez-faire. Viviamo in questo spazio e siamo i primi a degradarlo. Le autorità sono complici della loro inazione».
E ancor oggi non si ferma. Oggi il tema diviene la vendita da parte del governo della zona costiera di Ndayane ai kuwaitiani per realizzarci un porto. Espropri della nazionalità senegalese in cambio di denaro.

E tutto oggi passa tramite i social, come le immagini fatte a Kinshasa, negli ultimi giorni, per un progetto finanziato dall’ong Solidarité Laïque. Dice Boubacar: «Sono molto attivo su Facebook perché penso che sia un modo efficace e gratuito per esporre il tuo lavoro e a maggior ragione per tutti coloro che gravitano in un contesto non adatto a esporre la fotografia. Costruendo un network significativo, oggi possiamo beneficiare della stessa visibilità di un fotografo le cui opere sono esposte in musei americani o in gallerie europee. Con pubblicazioni ben fatte e mirate, possiamo essere certi di essere visibili a tutti i collezionisti e ai galleristi dei cinque continenti».

 

(Dante Farricella)

tutte le immagini: © Boubacar Touré Mandémory

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