di Claudia Volonterio
Nel distretto di Jinja, Uganda, Edith Lukabwe ha trasformato il dolore personale in un progetto di cura e riscatto: Home of Hope. Questo spazio di inclusione nato in un contesto segnato dallo stigma, oggi accoglie e assiste 98 bambini con disabilità.
In Uganda, Paese popolato da cinquanta milioni di abitanti, oggi sono sei milioni le persone che vivono con una disabilità. Una realtà caratterizzata dal peso dello stigma in molti contesti sociali. Diverse credenze consolidate nel Paese e difficili da scardinare considerano infatti la disabilità come una maledizione. Senza una giusta conoscenza che sfati queste convinzioni, la conseguenza per queste persone fragili è l’emarginazione da parte della comunità. Una realtà drammatica che riguarda anche i bambini con disabilità, isolati e rinchiusi a isolamento forzato dalle stesse famiglie, quando non vengono abbandonati, alcuni di loro ancora in fasce. Oltre allo stigma, sono le difficoltà economiche ad avere un peso specifico. Solo l’1 per cento dei fondi stanziati dal governo infatti è destinato alle spese per aiutare le famiglie delle persone con disabilità e il 31 per cento di loro vive in povertà, riporta Aljazeera.
Nel distretto rurale di Jinja, spicca un complesso costituito da un orfanatrofio e un ospedale fondato da una donna, Edith Lukabwe, che oggi si prende cura di ben 98 bambini con differenti disabilità, tutti abbandonati appena nati e lasciati davanti alla porta o a pochi anni di vita, o messi in salvo a pochi anni di età dopo l’abbandono dei genitori.
La storia di Edith e del suo impegno per aiutare in prima persona questi bambini è iniziata nel 2000 e si intreccia con la sua vicenda di vita personale e la nascita del suo primogenito, Derrick. A pochi giorni dalla nascita infatti il bambino è stato ricoverato in ospedale, dove gli è stata diagnosticata per errrore la malaria. Derrick infatti aveva contratto la meningite che gli ha causato delle complicazioni a livello spinale. Edith e il marito Richard non sono riusciti subito ad avere informazioni adeguate circa le condizioni del figlio, subendo l’emarginazione da parte di famiglia e amici.
“Abbiamo iniziato ad andare avanti e indietro dall’ospedale. Casa, ospedale, casa, ospedale. E con la sua situazione, soprattutto con le convulsioni, la gente diceva: “Ha l’epilessia. È posseduto dai demoni, racconta Edith ad Aljazeera.
“Ha partorito un bambino posseduto dai demoni”: questa terribile frase è ancora impressa nella memoria della donna.
Nei primi anni Duemila, ma ancora oggi, non esisteva in Uganda un’adeguata educazione e supporto per la cura di persone con disabilità. Un vuoto e una solitudine per le famiglie che arrivano a ricorrere all’aiuto di guaritori tradizionali, con conseguenze talvolta irreversibili per i pazienti. Al figlio di Edith, dopo non aver avuto nessun miglioramento da quelle cure, una volta riportato in ospedale, fu infine diagnosticata una disabilità permanente. La prolungata assenza di cure per la meningite aveva causato danni cerebrali e paralisi cerebrale, lasciandolo senza possibilità di parlare e camminare e nutrirsi da solo.

Edith non perse la speranza e decise di portare suo figlio a delle sedute di fisioterapia. Questa fu l’occasione per lei sia di imparare molte tecniche e metodi per occuparsi di Derrick, ma anche di incontrare altre madri nella sua stessa situazione, offrendo loro il suo aiuto. Un incontro che ha fatto germogliare in lei il progetto che poi si sarebbe realizzato anni dopo: la creazione dell’associazione Home of Hope (La casa della speranza) dove accogliere e prendersi cura di bambini con disabilità. Nella sua comunità si sparse rapidamente la voce del suo impegno. La donna veniva considerata “colei che si prende cura di quei bambini con i demoni”. Convinzione che ha fatto si che alcune mamme le lasciassero i loro figli sulla porta di casa, abbandonati per via della disabilità. Non riuscendo a rintracciare i genitori, Edith li ha dovuti adottare ritrovandosi con il primissimo gruppo di bambini di cui prendersi cura.
Home of Hope nacque dunque a casa sua, diventando a poco a poco una realtà molto più grande, grazie al sostegno di donatori internazionali che le permisero di trasferirsi nel 2013 nella tenuta dove sono ancora oggi. Un lavoro incessante, fatto di dedizione, cura e sacrificio che Edith non ha mai messo da parte, nemmeno dopo la morte del figlio Derrick, a soli 14 anni. Un dolore che per un po’ ha quasi fatto vacillare tutto. Ma la donna è riuscita ad andare avanti per onorare la sua memoria, incanalando il dolore nel lavoro e nel mantenimento di un luogo che stava diventando un riferimento per la comunità.
Oggi Edith gestisce Home of Hope con l’aiuto del marito e degli altri suoi figli, avvalendosi quasi al cento per cento del sostegno di donazioni e volontari internazionali. Di recente è stata creata una casa assistita per i maggiorenni con disabilità. Nonostante le difficoltà, le attività di cura stanno aumentando e costituiscono un importante aiuto per molte famiglie per uscire dall’isolamento. Nel centro vengono organizzate inoltre delle sessioni di sensibilizzazione mensili che hanno visto un incremento progressivo del numero di partecipanti. Numeri che accendono una scintilla di speranza per il futuro.