Tunisia – Dopo l’attentato al Bardo il Paese non è in ginocchio

di Enrico Casale
La Tunisia non si arrende

“Noi non abbiamo paura. E continuiamo a lavorare. Venite, venite a trovarci”. Ha riaperto da pochi giorni il museo del Bardo di Tunisi, scrigno di meraviglie d’arte romana e archeologia e uno dei più importanti siti turistici di tutto il Paese, oggi simbolo di un Paese bellissimo e ferito al cuore, ma che alla violenza del terrorismo non si vuole piegare. Dal 2013 ad oggi, il terrorismo jihadista ha già provocato 60 vittime in 15 attacchi, i 24 morti del museo del Bardo hanno segnato una svolta: non si colpiscono più solo i rappresentanti dello Stato (hard target) in posti remoti o di frontiera, ma si è passati alla capitale e a uno dei tipici soft target, i turisti. Ne parliamo con Paolo Branca, islamista dell’Università Cattolica di Milano e responsabile della Diocesi ambrosiana per il dialogo interreligioso.

Professore, l’attentato al Bardo ha colpito la Tunisia al cuore.
“Fa notizia che il terrorismo abbia colpito proprio la Tunisia perché, da un lato ci siamo assuefatti agli attentati quotidiani in altri Stati arabi e africani, dall’altro lo consideravamo l’unico Paese uscito dalle rivolte arabe che stava costruendo una democrazia senza troppi problemi. La stessa ministra del Turismo, Selma Elloumi Rekik, aveva appena dichiarato la Tunisia un paese sicuro (negli stessi giorni in cui l’Egitto varava invece una stretta sui visti d’ingresso per i turisti, ndr). Del resto, gli jihadisti volevano colpire la contaminazione con l’Occidente, simboleggiata dai mosaici romani del Bardo, ma l’obiettivo era soprattutto l’economia del nuovo Stato. Dopo la rivolta del 2011, il turismo era calato, ma ora, a differenza dell’Egitto, gli arrivi erano in forte ripresa: questo settore vale il 7% del pil nazionale, dà lavoro a più di 400.000 persone e fornisce alle casse tunisine il 20% della valuta straniera”.
Perché la Tunisia viene indicata come modello positivo tra gli Stati frutto delle Primavere arabe?
“Qui la transizione democratica sta funzionando, facilitata da un alto livello di istruzione, da un territorio più piccolo e dal non avere questioni energetiche e strategiche calde. Per intenderci, non ha il sottosuolo pieno di petrolio e non confina con Israele. Inoltre, in Tunisia c’è una classe media in grado di pesare tra la massa e i pochi ricchissimi. Dal punto di vista politico, il partito islamico Ennadha è stato molto più accorto dei vicini Fratelli musulmani egiziani: caduto Ben Ali, non ha rivendicato per sé la presidenza, lasciandola a Moncef Marzouki, un rispettabile attivista dei diritti umani. Quando alle urne è stata battuta da un partito più laico e liberale, ha accettato le regole del gioco ed ha addirittura appoggiato il nuovo Governo. Forse è proprio questo che gli jihadisti vogliono attaccare, dimostrando che la scelta democratica di un partito islamico è perdente”.

Eppure la Tunisia è seconda solo all’Arabia Saudita (ma come percentuale rispetto alla popolazione è la prima) tra i Paesi dei combattenti arruolati nel Califfato, 3.000 per il ministro dell’Interno; in un sondaggio, il 13% dei tunisini ha espresso sostegno all’Isis.
“Non credo ci sia una specificità tunisina. Semplicemente in Tunisia, dove vi è un sistema più democratico per esempio del vicino regime egiziano, c’è più libertà. Quindi è più facile per un tunisino che per un egiziano partire per l’estero e dare una risposta scomoda in un sondaggio. Qui come altrove, l’Isis trova adepti tra i giovani marginalizzati, che da noi si ritroverebbero negli hooligans o nelle bande giovanili. La molla non è una natura violenta, ma la sfiducia nelle istituzioni e la perdita di credibilità delle ideologie del passato, dal nazionalismo al socialismo”.
Si potrebbe dire che è il fallimento delle Primavere arabe?
“No, sarebbe ingeneroso. In quelle rivolte, finalmente la gente è scesa in piazza per protestare contro nemici esterni (Israele, Stati Uniti), ma attaccando regimi interni che sembravano inamovibili. Più che Primavere andrebbero chiamate Risvegli. Dopo, non per forza arriva l’estate: il risveglio – umano, non atmosferico – può essere faticoso e doloroso. È una tentazione comprensibile ma ingiusta dire: “Stavo meglio quando dormivo”. Cacciati i dittatori, sono rimasti ai vertici tanti uomini dei vecchi apparati: vogliono far rimpiangere alle masse di aver chiesto la libertà, rendendo insicura la vita quotidiana. In Egitto, prima di ansarsene, hanno tolto i vigili dalle strade e fatto uscire i malviventi dalle carceri. In generale, in tutta l’area sta ritornando l’autoritarismo, come a dire: “La ricreazione è finita”. Ne è simbolo la Turchia di Erdogan, con la sua nuova reggia da oltre mille stanze ad Ankara”.

Ma quindi chi combatte contro chi?
“È la guerra del tutti contro tutti. Lo stesso Isis è stato appoggiato, o non ostacolato, da diversi attori per vari motivi: dalla Turchia per il problema curdo, da alcuni sunniti per non rafforzare gli sciiti, da una parte dell’opposizione ad Assad che sperava fosse la volta buona per cacciare il dittatore. Un dato che dovrebbe far riflettere: la Coalizione dei 60 Stati non ha ancora inferto colpi significativi all’Isis, mentre la piccola Giordania, furente per l’assassinio del suo pilota, ne ha in pochi giorni distrutto il 20% delle sue forze. In questo clima nebbioso, temo che qualche apprendista stregone teorizzi di ridisegnare i confini del Medio Oriente, con migrazioni forzate e genocidi. È quello che, a bassa intensità, sta già avvenendo in Siria e Iraq”.

Lo scontro è anche all’interno del mondo musulmano?
“Sì, su chi possa proclamarsi realmente interprete dell’Islam, all’interno come all’esterno della comunità musulmana. Gli jihadisti parlano del Califfato senza sapere cosa sia stato nella storia. Certo non ci fu “l’idilliaco mito delle origini” che ripetono nei loro slogan imparati a memoria: dei primi quattro califfi, tre morirono ammazzati. Riemerge inoltre il grosso nodo della distinzione tra religione e politica, che non è mai stato sciolto perché l’islam non ha un’unica istituzione religiosa, ad eccezione degli scitti, che hanno una gerarchia ma rappresentano solo il 10% dei musulmani. Tranne l’Iran, gli Stati del Medio Oriente non sono teocratici, piuttosto cesaropapisti ed infatti hanno sempre il ministero agli Affari religiosi. Nella storia del pensiero islamico, la scuola hanbalita, improntata al rigorismo più estremo, è sempre stata presente, ma in minoranza; nel ‘700 arrivarono a proporre di distruggere la tomba di Maometto a Medina, perché – sostenevano – bisognava adorare solo Allah. Questa corrente ha aumentato la sua influenza solo negli ultimi decenni, su impulso di quegli stessi governi che l’Occidente appoggiava in chiave anticomunista. Per fare i nomi, i petrodollari dati all’Arabia Saudita e agli Stati del Golfo chiudendo tutti gli occhi possibili”.

(28/04/2015 Fonte: Famiglia Cristiana)

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