A gennaio 2024 la scrittrice sudanese Fatin Abbas arriva a Venezia e si fermerà per tre settimane nella città lagunare. Il suo compito è guardarsi intorno e raccontare, intrecciare l’esperienza esteriore e quella intima. La sua famiglia, pochi mesi prima, era stata costretta dalla guerra a lasciare Karthoum per rifugiarsi al Cairo. Mentre vagabonda per le calli, sul suo cellulare arrivano anche le immagini del genocidio perpetrato da Israele a Gaza, nella strabiliante indifferenza dei governi occidentali. La fibrillazione gioiosa da flâneuse è costantemente oscurata dalle ombre di guerra, quelle esperita sulla propria pelle e quelle che accadono altrove, ma non per questo sono meno reali. Black Time (Wetland, 2025, €16, pp.94) è il frutto di questa esperienza e dell’intreccio continuo tra disagio e meraviglia in «giorni fitti di musei, chiese, quartieri, caffè», ma anche di microesclusioni (come quando lei e quattro amiche venute da Berlino sono allontanate astiosamente da una pasticceria) e preoccupazione per quel mondo che brucia mentre lei passeggia.
Black time, la locuzione che dà il titolo al volume, risale alla sua adolescenza – spiega Abbas – e indica il tempo del ritardo, della lentezza intenzionale, dell’indifferenza verso l’efficienza comandata. E, nella visione produttivista che permea l’Occidente, rappresenta un tempo sbagliato. Il racconto si snoda lungo luoghi fisici: San Lazzaro degli Armeni, il museo Fortuny, la Biennale… come una guida turistica che traccia però una topografia dell’anima. L’opera principale di Fatin Abbas, Ghost season: a novel, è ambientata al confine tra Sudan e Sud – Sudan e non è stata ancora tradotta in italiano.

Black Time di Fatin Abbas (Wetland, 2025, €16, pp.94)


