di Stefano Pancera
Dalla Tanzania al Camerun e alla Costa d’Avorio, le proteste si moltiplicano nelle città. Le elezioni degli ultimi giorni rivelano un abisso sempre più profondo tra chi governa e chi è governato.
Tre vittorie elettorali, un unico filo rosso: l’abisso tra chi governa e chi è governato. Le immagini arrivate in questi giorni dalla Tanzania delineano un quadro drammatico: barricate in fiamme e scontri che si estendono ben oltre la capitale commerciale Dar es Salaam con decine di vittime. Forze di sicurezza presidiano i punti nevralgici di diverse città con gas lacrimogeni.
Anche se la presidente Samia Suluhu Hassan ha “solo” 65 anni e nel contesto dei dinosauri africani, potrebbe sembrare quasi una ragazzina, le elezioni presidenziali dello scorso 29 ottobre in Tanzania sono state descritte da alcuni osservatori come un caso “quasi da manuale” su come neutralizzare l’opposizione senza nemmeno sporcarsi troppo le mani. Prima presidente nella storia del Paese, era stata elogiata dalla popolazione per aver allentato alcune delle restrizioni introdotte da Magufuli, ma oggi è accusata da molti di aver intensificato la repressione.
Molti dei manifestanti di questi giorni erano giovanissimi tanzaniani: una generazione cresciuta online, che oggi reclama uno spazio politico simile a quello di molti movimenti giovanili in diverse parti del mondo.

Dopo giorni di coprifuoco e silenzio digitale imposto dalle autorità, la connessione a internet sembra parzialmente ripristinata. Nel vuoto informativo i social network diventano così la principale finestra sul Paese: tra video frammentari e racconti di attivisti, emerge il ritratto di una nazione attraversata dalla rabbia, dal desiderio di cambiamento e da un profondo senso di frustrazione.
In questi processi che sembrano avere ben poco a che vedere con ciò che, per abitudine o mancanza di immaginazione, continuiamo a definire “elezioni”, la Tanzania è solo l’ultima in ordine di tempo, dopo Camerun e Costa d’Avorio.
In Costa d’Avorio, Alassane Ouattara, 83 anni, ha ottenuto il suo quarto mandato consecutivo il 25 ottobre 2025, con quasi il 90% dei voti in elezioni segnate da bassa affluenza (50,5%) e da una sostanziale esclusione degli avversari politici. Numeri che non sorprendono nessuno, perché a queste elezioni non c’era davvero nessuno con cui competere.

In Camerun, il 92enne Paul Biya è un enigma vivente. Quando è diventato presidente per la prima volta nel 1982, l’Italia aveva appena vinto i Mondiali in Spagna, negli Stati Uniti c’era Ronald Reagan, l’Unione Sovietica esisteva ancora, ed internet era solo un progetto militare. La settimana scorsa è stato proclamato vincitore dell’ottava elezione consecutiva dal Consiglio costituzionale, con il 53,66% dei voti, in un contesto segnato da proteste violente e da una crescente sfiducia verso le istituzioni. Nel suo annuncio di candidatura su X, aveva scritto: “Il meglio deve ancora venire”.
Una promessa o una minaccia? Per lui probabilmente il meglio è già arrivato. Ma per i giovani camerunensi che protestano a Douala? Per gli ivoriani che non si sono nemmeno registrati per votare? Per i tanzaniani che non sono andati alle urne ma in piazza, o quelli scomparsi dopo aver osato opporsi?
Questi leader consolidano il loro potere mentre l’età media in Camerun è di 18 anni, in Costa d’Avorio di 19 anni, in Tanzania poco più di 17 anni. Significa che chi decide del futuro di questi paesi appartiene a un’epoca che per molti è quasi preistoria.
Ma il tema, in verità, non è l’età anagrafica bensì la convinzione di una parte della classe dirigente africana che il potere sia qualcosa da tenere, e l’opposizione sia un nemico da eliminare, non un interlocutore con cui confrontarsi.

Controllo capillare delle istituzioni, influenza sulle commissioni elettorali, sulle forze di sicurezza, sui media statali. Costituzioni riscritte, interpretazioni creative sui limiti di mandato, cavilli legali pescati dal nulla per escludere avversari scomodi, arresti politicamente motivati, processi farsa, esili forzati. È un po’ questa la sintesi della ricetta dei governi che si auto-perpetuano: non vincono necessariamente perché sono popolari. Vincono perché il sistema è costruito per farli vincere. Ovviamente non solo in Africa.
Nessuno di questi regimi sembra avere un piano di successione chiaro. Questi tre casi – Costa d’Avorio, Camerun, Tanzania – sia pur diversi tra loro non sono anomalie. Sono sintomi di un sistema regionale che sta mostrando una volta di più tutte le sue crepe: quello di una comunità in cui i giovani sono sì maggioranza assoluta ma, per contare, devono sfidare il rischio della repressione. Non che la Gen Z africana reclami necessariamente i nostri modelli “democratici”, né che guardi all’Europa o alla Cina come soluzioni salvifiche. Di certo, però, non intende più accettare la pantomima di queste cosiddette “elezioni”. Un confronto che presto o tardi segnerà l’inevitabile destino delle “democrazie sorvegliate” da dinosauri troppo longevi.


