Si alza poco a poco la cortina di bugie e depistaggi disseminati dalle forze di sicurezza egiziane intorno alla morte di Giulio Regeni. La telecamera miniaturizzata in un bottone, con la quale il sindacalista Mohamed Abdallah ha ripreso la loro ultima conversazione, per gli investigatori italiani è un elemento importante.
Dal video (in una parte non trasmessa) emerge infatti che Abdallah, subito dopo l’incontro con Regeni, chiamò la Nacional Security chiedendo: «Ora venite a prendervi gli apparecchi». La richiesta prova che l’uomo era un informatore che agiva agli ordini dei funzionari. Anche il contenuto della conversazione – con le ripetute richieste di denaro e il fermo rifiuto di Giulio – dimostra, secondo gli inquirenti, che c’era un piano preciso per togliere di mezzo il giovane ricercatore italiano, arrestandolo con l’accusa di corruzione. E forse Regeni comportandosi in modo del tutto corretto ha firmato senza saperlo la sua condanna a morte: è possibile che, non avendo prove per giustificare l’arresto e la conseguente espulsione, abbiano deciso di usare le maniere forti finendo con l’ucciderlo. Gli agenti della National Security (Servizi Segreti civili egiziani) negano ovviamente di aver chiesto loro ad Abdallah di girare il video e sostengono invece che sarebbe stato lo stesso sindacalista a farlo col cellulare consegnandolo poi alla polizia. Una ricostruzione giudicata dagli inquirenti italiani assolutamente non credibile.
I primi incontri tra Abdallah e Regeni risalgono al dicembre 2015 e la denuncia del sindacalista alla polizia egiziana arriva in conseguenza di questi primi incontri e non il 7 gennaio 2016 come detto dalla procura del Cairo. Il sospetto dei magistrati italiani è che Abdallah, denunciando Regeni, volesse ottenere un profitto personale ed accreditarsi come collaboratore privilegiato delle forze dell’ordine egiziane.
Ad un anno (oggi) dalla scomparsa di Giulio Regeni, dunque, gli inquirenti italiani stanno compiendo finalmente significativi passi avanti verso la verità sulla scomparsa, sulle torture e sulla morte del ricercatore. Contribuiscono a chiarire il quadro proprio gli ultimi documenti trasmessi dal Cairo, dopo l’estenuante trattativa portata avanti dalla Procura di Roma. In particolare pochi giorni fa sono arrivati i verbali dei due agenti che hanno pedinato Regeni tra il dicembre del 2015 e il gennaio dello scorso anno e il rapporto del colonnello che ha svolto la perquisizione del 24 marzo scorso nell’appartamento dove furono trovati i documenti del ricercatore. L’immobile era nella disponibilità della sorella di un componente della banda dei rapinatori uccisi in una sparatoria (che in un primo momento gli egiziani avevano provato a spacciare come gli autori dell’omicidio). I magistrati italiani ora puntano a individuare gli appartenenti alla National Security che hanno effettuato controlli su Giulio e quelli che sono entrati in possesso dei suoi documenti. Inoltre si attende l’esito di una perizia affidata ad un gruppo di esperti tedeschi incaricati di tentare di recuperare dai filmati delle stazioni della metropolitana del Cairo in cui il giovane ricercatore sarebbe transitato il 26 gennaio dello scorso anno prima di sparire nel nulla.
Regeni, il video mai visto dell’incontro con il sindacalista che lo denunciò
«La Procura di Roma è impegnata in una ostinata ricerca della verità», spiegano a piazzale Clodio. «E’ un lento cammino ma ha permesso di registrare significativi passi avanti», sottolinea chi indaga e non dimentica che si è partiti da una ipotesi tutta di criminalità comune e attività poco chiara di Giulio. «Il ragazzo – danno atto i magistrati romani – era invece un onesto, serio, ricercatore che stava conducendo i suoi studi».
(25/01/2017 Fonte: La Stampa)
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