Sud Sudan | Il demone tribalista nella Chiesa

di Pier Maria Mazzola

È arrivata a conclusione domenica, senza che si siano segnalati incidenti, la presa di possesso della diocesi del nuovo arcivescovo cattolico di Juba, Stephen Ameyu Martin Mulla, il quale viene così a succedere al 79enne Paolino Lukudu Loro, missionario comboniano. Alla cerimonia nella cattedrale hanno presenziato anche il presidente Salva Kiir e i tre vicepresidenti, tra cui Riek Machar.

Ora, la notizia non sta nella compresenza nello stesso tempio dei due politici che sono stati all’origine di una feroce guerra e che oggi – costituito da pochi giorni il sospirato governo di unità nazionale – sembrano sforzarsi seriamente di coabitare in pace, bensì nel fatto stesso che sia stato possibile l’insediamento del nuovo pastore cattolico dell’arcidiocesi avente per centro la capitale sud-sudanese. Basti pensare che, non più di dieci giorni prima, don Nicholas Kiri, incaricato di supervisionare la preparazione al cambio di guardia, era stato picchiato e malmenato da un forte gruppo di giovani cattolici che protestavano contro la scelta del nuovo vescovo. La storia era cominciata l’indomani della nomina vaticana di Stephen Ameyu, da un anno vescovo di Torit, per la nuova sede, annunciata il 12 dicembre. Da Juba era subito partita per Roma una lettera, sottoscritta da tre preti e cinque laici, che minacciava che «in nessun caso mons. Ameyu sarebbe stato accettato come arcivescovo di Juba». L’accusa era quella dell’indegnità del prescelto per il nuovo incarico, a cominciare partire dalla sua (presunta) poligamia, e anche la sua mancanza di conoscenza della lingua bari.

La Santa Sede ha promesso di fare nuove indagini sull’idoneità di Ameyu per giungere, il 6 marzo scorso, a confermare la nomina. Roma locuta, ma gli animi non si sono placati. Il giorno dopo della “lezione” a don Kiri, l’amministratore, ossia reggente, della diocesi di Wau, don Marko Mangu Odelio, si è scagliato (verbalmente) contro mons. Lukudu: «È vergognoso che i capi religiosi cattolici di Juba si lascino trascinare dal tribalismo invece di combatterlo nel Paese e di unire il popolo». Gli osservatori interpretano l’accusa nel senso che l’ormai emerito arcivescovo non avrebbe denunciato con sufficiente fermezza il degradarsi, appunto etnicista, della situazione. Più in chiaro: Ameyu è un Madi; la città di Juba appartiene al territorio tradizionalmente dei Bari, etnia di origine di Lukudu.

Un simile conflitto, ancorché scatenato da una minoranza, ha toccato nervi scoperti e non poteva essere del tutto ignorato nel corso della celebrazione. Paolino Lukudu ha accolto con particolare calore in cattedrale il suo successore ed esortato tutti – da Torit a Juba all’intero Paese – alla riconciliazione, aggiungendo, ma senza dare dettagli, che una tale confusione è penetrata nella Chiesa locale a opera di elementi estranei alla comunità ecclesiale.

Questa vicenda ancora calda ne rievoca altre analoghe che si ripropongono qua e là nel continente. Tra i casi più clamorosi, quello in Camerun alla fine dello scorso millennio, e un altro più recente in Nigeria. Qui, il vescovo di Ahiara, nominato nel 2012 da Benedetto XVI, ha finito per rassegnare le dimissioni nelle mani di Francesco nel 2018, a motivo del clima pesante anche dopo la richiesta di perdono di molti sacerdoti indirizzata al Papa; all’inizio di questo mese di marzo Peter Ebere Okpaleke è stato assegnato a una nuova diocesi, quella di Ekwulobia, mentre quella di Ahiara continua a essere vacante.

Nel 1999 scoppiarono veri e propri disordini, inclusa l’erezione di barricate, per impedire l’ingresso nella capitale camerunese Yaoundé – diocesi a maggioranza ewondo e con una popolazione politicamente vicina al presidente –, di mons. André Wouking, di origine bamiléké, un gruppo più schierato con l’opposizione. L’arcivescovo successore del compianto Jean Zoa poté però rimanere nella sua cattedrale fino alla morte, nel 2002.

In apertura: la cattedrale cattolica di Santa Teresa a Juba (foto Simona Foltýn)

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