Storia di A.

di Stefania Ragusa

OVVERO UN’AMICIZIA VENUTA DA LONTANO

Un  giorno come tanti, uscivo dal lavoro, sono insegnante, e sulla strada verso casa noto uno striscione affisso da poco. Uno striscione che riportava lo slogan: “No al centro accoglienza”.

Mi volto e di fronte vedo il residence Eur-Torrino. Comprendo che oramai, viste le emergenze, era stato adibito a centro accoglienza.

Correva l’anno 2016. Gli sbarchi erano numerosi e per me che, come attivista, mi occupavo di migrazione, i fratelli e le sorelle giunti dal mare, erano arrivati vicino casa.

Ci impegnammo a far rimuovere lo striscione e per contrastare ogni forma di inutile allarmismo tra i cittadini del quartiere per la presenza dei profughi, decidemmo di fare qualcosa. Ho sempre ritenuto quell’arrivo qualcosa di positivo per il nostro quartiere e per il nostro paese. Un ottimo spunto per stimolare alla conoscenza dell’altro e non solo sul lato assistenzialistico.

Decisi di rompere il ghiaccio e mi presentai al centro accoglienza, fu in quell’occasione che conobbi il coordinatore, all’inizio un po’ diffidente, ma dopo il colloquio ci salutammo con la mia intenzione di presentare un progetto totalmente gratuito su attività sociali e di aggregazione. Fu così che sola contro tutto e contro tutti, riuscii a creare una collaborazione tra il centro accoglienza e il Museo delle Civiltà, stimolando, in tal modo, la partecipazione di una cittadinanza attiva.

Durante le attività e gli incontri, ho conosciuto A., un ragazzo di 19 anni, venuto dalla Guinea. Lui si dimostrò subito interessato, era cordiale, simpatico, sprizzante di allegria. Dove c’era lui, c’era sempre una risata, un sorriso. Non parlammo mai del suo viaggio, ma mi raccontò che era partito dalla Guinea a 17 anni e ci impiegò due anni per giungere qui su un gommone, partendo dalla Libia. In Guinea ha lasciato un padre, ora purtroppo venuto a mancare, una madre, una sorella e un fratello, più piccoli.

Iniziò una grande amicizia fatta di momenti condivisi oltre ogni confine, oltre ogni differenza, oltre ogni pregiudizio. A. era molto determinato, imparò velocemente a leggere e scrivere in italiano, nonché a parlarlo in maniera eccellente, e si impegnò a riprendere gli studi.

Un giorno, però, mi telefonò e mi disse di sentirsi molto male. Al centro, il medico ipotizzò fossero le conseguenze del digiuno praticato durante il Ramadan. Ma egli non ne fu convinto, e andò, da solo, all’ospedale San Gallicano.

Mentre si trovava nella sala d’attesa dell’ospedale, al telefono mi disse: ”Roberta! Mi hanno detto che non ho più sangue”. Venne ricoverato d’urgenza all’ospedale Sant’Eugenio. Mi precipitai al centro accoglienza per chiedere cosa fosse successo, mi risposero: ”Si sospetta talassemia”. Io non sapevo minimante cosa fosse ma dopo essermi documentata ne compresi la gravità. Questa patologia, più conosciuta come anemia mediterranea, è malattia ereditaria che provoca una ridotta o assente sintesi dell’emoglobina. e necessita, come cura, di continue e vitali trasfusioni di sangue.

A. fu subito inserito nel programma di cura presso il reparto talassemici. Da quel momento la nostra amicizia si trasforma in un legame molto forte quasi come quello di madre/figlio. Ogni giorno mi sono recata in ospedale, il medico del centro accoglienza, dato che aveva compreso il legame di fiducia che si era istaurato tra di noi. prese il mio contatto e mi diede indicazioni per seguire il ragazzo. Ed io accettai senza se e senza ma.

Fu lì che, in una video chiamata, mi ritrovai di fronte a questa mamma africana della Guinea.  Ci salutavamo, da una stanza di ospedale a Roma, e anche senza parlare la stessa lingua, ho compreso che, solo con la mia presenza lì, avevo contribuito a renderla più serena nella sua preoccupazione verso un figlio lontano. E’ in questi momenti che comprendi il valore dei piccoli gesti.

Iniziò così un anno formidabile, A. nonostante la malattia era sempre forte e allegro. Un anno insieme tra concerti, momenti di convivialità, occasioni di aggregazione e la nostra lotta contro l’anemia. In quei primi mesi, quando potevo, finito il lavoro, lo andavo a prendere al centro e lo accompagnavo in ospedale per la consueta trasfusione. Un periodo bellissimo, fatto di cene organizzate, amici condivisi, eventi, concerti, il progetto fotografico in collaborazione con il museo, il corso di danza movimento terapia, gite al mare. Tutto ciò condiviso in famiglia con il mio compagno, anche lui rifugiato politico.

Un anno ricco di momenti che non dimenticherò, non solo per ciò che ho donato, ma anche per ciò che ho ricevuto. Ho imparato molte cose sulla vita e ho conosciuto il grande coraggio di chi prende un gommone per arrivare fino qui. Se A. avesse scoperto di avere la talassemia in Guinea, non sarebbe sopravvissuto. La nostra è stata ed è tutt’ora un’amicizia vera, sincera, aldilà della pelle differente; abbracci, tanti abbracci La braccia sono fatte per abbracciare le persone di ogni nazione. Non so contare quante siano le persone migranti che ho abbracciato, non lo so. Ho solo imparato la potenza di questo gesto.

Ora A. ha deciso di vivere altrove, proseguendo il suo viaggio verso il Nord. La sua uscita dal centro di prima accoglienza e l’ingresso ad un’altra struttura non molto efficiente per le sue condizioni, lo hanno spinto a questa decisione. La nostra lotta di un anno per riportare l’emoglobina ai giusti valori è stata vinta, ma si prospetta un intervento. Sono sicura che con forza, A. saprà affrontare ogni difficoltà. Con malinconia e tristezza ho accettato questo distacco, ma so che un’amicizia vera non avrà fine, neanche in lontananza. Ringrazio questo ragazzo che ha portato il vento dell’Africa nei miei polmoni, lo ringrazio per avermi insegnato ad essere forte e a non mollare mai, perché in tempi come questi, solo persone come lui possono permettersi di dire “io non mollo”.

Se avessi un figlio lo avrei voluto come A., un ragazzo venuto da lontano su un gommone.

Roberta Parravano

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