Siamo tutti su quella barca

di AFRICA

dalla nostra inviata Sara Lemlem

 

Cover_Minifestazione_LampedusaQuesta la frase che ha accompagnato la marcia commemorativa per le vittime del naufragio di Lampedusa, corteo che si è tenuto lo scorso 12 ottobre a Milano. La metafora è forte: l’immagine di quel barcone affondato, dei corpi annegati, delle speranze svanite. Ma come ci si immedesima in un avvenimento così lontano dal quotidiano comune? Come ci si può sentire effettivamente su quella barca? Concretamente tutti i partecipanti del corteo su una barca del genere non ci sono mai stati, eppure in qualche modo hanno sentito di essere parte di quella tragedia.

Davanti a tutti, nel corteo, c’erano i ragazzi di seconda generazione, nati in Italia da genitori stranieri (Eritrei, Etiopi e Somali), a ricordare i loro fratelli e poi molte altre persone: un mix di giovani e anziani, italiani e stranieri insieme. Tutta gente comune, legata dal solo dal fatto di essere “umani”.

A sostegno di quest’idea, per la prima volta, persone di origine eritrea ed etiope che per decenni si sono tenute a debita distanza a causa dei contrasti fra i due Paesi, hanno marciato insieme, come fratelli. Segno di un cambiamento generazionale, di nuove idee pacifiste o di vecchi rancori cancellati, questi ragazzi hanno accolto l’idea di fratellanza rendendola visibile concretamente.

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La marcia iniziata da piazza San Babila è proseguita fino a Porta Venezia, nel silenzio generale, scandita solo dai lenti passi e composta da numerosi striscioni con frasi come questa: “La ricerca della felicità non può passare dal saper nuotare”.

Una volta arrivati a Porta Venezia, la gente si è riunita calorosamente formando un piccolo altare fatto di fiori e candele, tanto bello quanto doloroso. “Dovremo sederci tutti quanti insieme e riflettere per trovare una soluzione a prescindere dalle nostre ideologie e appartenenze politiche”. Queste le parole di Daniel Lemlem, l’organizzatore della marcia, che insieme agli altri ragazzi ormai stanchi dell’indifferenza dilagante, ora dice basta a quest’ipocrisia.

“Sarà che il mio essere un po’ sognatore mi fa vedere il bicchiere mezzo pieno anche nelle più tristi occasioni. Tuttavia non riesco ancora a credere che il 30 settembre 13 persone abbiano perso la vita a pochi metri dal raggiungimento di un sogno. A loro non è stato concesso nemmeno di sognare”. Con queste parole continua il ricordo delle vittime degli eventi delle scorse settimane.

Oltre 7.000 morti. Questo il numero di persone che ha perso la vita cercando di attraversare il Mar Mediterraneo negli ultimi dieci anni, facendo diventare il “mare nostrum” un cimitero a cielo aperto. È quindi il semplice saper nuotare che può determinare chi ha diritto a vivere oppure no? La comunità internazionale non dovrebbe potere/dovere fare di più?

Il corteo sì è concluso con le parole di Maryan Ismail:“Dobbiamo dire basta, ma basta davvero, ma basta sul serio”.

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