Lesotho, viaggio tra le più alte montagne dell’Africa australe

di AFRICA

È l’unica nazione al mondo ad avere l’intero territorio ben oltre i mille metri di altitudine. La sua popolazione, povera ma dignitosa, conserva tradizioni secolari, in simbiosi con un ambiente aspro e affascinante.

Se avete paura di volare e siete diretti in aereo a Matekane, vi conviene imbottirvi di ansiolitici e pregare che i piloti abbiano bevuto solo caffè. La pista di atterraggio di questa località, situata nel sud del Lesotho, è un’esile striscia di terra rossa, lunga nemmeno 400 metri, che termina sul ciglio di un’impressionante scarpata. Basta ritardare un attimo la frenata per precipitare nel vuoto. Non che vada molto meglio in altri aeroporti nei dintorni. Il Lesotho è una nazione montagnosa, l’unica al mondo a trovarsi interamente sopra i mille metri di altitudine: enclave del Sudafrica, grande poco meno del Belgio, è dominata dalla catena dei Drakensberg (chiamati Maluti dalla popolazione sotho o conosciuti come “uKhahlamba”, “barriera di lance”, in lingua zulu). Qui si trova il monte più alto dell’intera Africa meridionale, il Thabana Ntlenyana (3.482 metri), e durante l’inverno la neve cade copiosa su chalet alpini e piste di sci (la località di Afriski, coi suoi impianti all’avanguardia, è un grande polo di attrazione turistica).

Acqua e cibo

Il motto nazionale del Lesotho è “Khotso Pula, Nala” ovvero “Pace, Pioggia, Prosperità”. L’acqua è la vera ricchezza del Lesotho e nella stagione invernale le precipitazioni gonfiano i tre principali fiumi – Orange, Caledon, Makhaleng – che dalle vette più alte del Paese scivolano verso ovest sull’altopiano dove vivono i due terzi degli abitanti e dove si trova la capitale Maseru. Le cospicue risorse idriche sono sfruttate per produrre energia elettrica, che viene venduta in gran parte al Sudafrica, attraverso un colossale sistema di dighe e canalizzazioni.

Paradossalmente il Lesotho è flagellato da siccità e carestie che a intervalli irregolari mettono in ginocchio i suoi 2,2 milioni di cittadini, la gran parte dei quali appartiene all’etnia sotho. Nelle aree rurali le famiglie sopravvivono grazie a piccoli appezzamenti di mais (la cui farina viene usata per preparare la polenta locale), in alcune vallate cresce un po’ di grano. Ma solo il 10 per cento del territorio è coltivabile, il resto è un susseguirsi di rilievi, pareti rocciose, canyon scoscesi e pascoli erbosi che favoriscono l’allevamento di vacche e capre. Non c’è cibo per tutti e il deficit alimentare è una bomba a orologeria: nel 1980 il Lesotho produceva l’80 per cento dei cereali che consumava, adesso ne importa il 70 per cento. L’unica coltivazione redditizia è la marijuana, che spunta tra i campi nei fondovalle e viene contrabbandata oltreconfine.

Clima guastato

Benché nel sottosuolo si celino diamanti e uranio, l’attività estrattiva è fortemente meccanizzata e occupa poche migliaia di persone. I manovali sono costretti a emigrare per lavorare nelle miniere del Transvaal. Il legame con il Sudafrica è fortissimo, e non solo per ovvie ragioni topografiche. L’African national congress (Anc), il movimento anti-apartheid di Nelson Mandela, venne fondato nel 1912 da un gruppo di attivisti rifugiatosi proprio in Lesotho. Durante la lotta al regime segregazionista di Pretoria, l’Anc organizzava le sue incursioni in basi nascoste tra queste montagne.

Ma oggi il partito al potere in Sudafrica sembra aver perso la sua memoria storica. Il gigante sudafricano – prima potenza economica del continente – non ricambia con altrettanta solerzia l’amicizia e la solidarietà dimostrata per lungo tempo dal suo piccolo vicino. Migliaia di lavoratori del Lesotho sono stati lasciati a casa dalle società minerarie sudafricane e hanno dovuto tornare in patria. Molti altri sono stati costretti a subire nelle città di Durban e Johannesburg ondate di violenze scaturite da campagne anti-immigrati.

Tensioni sociali

L’economia del Lesotho è al palo. Un tempo il settore tessile e dell’abbigliamento era una voce trainante, occupava 50.000 persone, ma negli ultimi vent’anni le industrie manifatturiere che lavorano la pregiatissima lana caprina locale sono passate in mano a imprenditori asiatici, soprattutto cinesi. E oggi sono in ginocchio. La disoccupazione giovanile è una piaga lacerante per la società, come l’altissimo tasso di diffusione del virus Hiv (un adulto su quattro è sieropositivo e 400.000 bambini sono rimasti orfani per colpa dell’aids). Le tensioni sociali e l’inadeguatezza della classe politica hanno minato la stabilità del Paese.

Da quando, cinquant’anni fa, è diventato una nazione indipendente, il Lesotho, ex protettorato britannico, ha attraversato stagioni particolarmente turbolente: un susseguirsi impressionante di colpi di Stato, congiure di palazzo, rivolte di piazza, ammutinamenti, cospirazioni, omicidi politici. Solo da pochi anni si è conquistata una certa stabilità. Il (regno del) Lesotho è una monarchia parlamentare: il sovrano esercita il potere esecutivo attraverso un governo guidato dal primo ministro ma soggetto all’autorità del Parlamento. Da vent’anni sul trono siede Letsie III, coadiuvato dal premier Pakalitha Mosisili: entrambi sono impegnati a promuovere la coesione sociale e lo sviluppo economico, senza mettere in discussione l’impalcatura istituzionale e le tradizioni secolari di cui vanno orgogliosi gli abitanti del regno.

Cavalli e stregoni

Malgrado la modernità e la globalizzazione siano giunte anche sulle montagne del loro regno, i Sotho mantengono uno stile di vita tradizionale, in sintonia con il loro ambiente. Avvolti in pesanti coperte di lana e protetti da ampi cappelli di forma conica, gli uomini si muovono a dorso di cavallo (una specie di pony docili e resistenti) lungo i sentieri impervi che collegano i villaggi rurali. Le donne cucinano e accudiscono i figli in tipiche capanne circolari in arenaria con il tetto di paglia. I giovani portano al pascolo il bestiame, da cui le famiglie ricavano latte, pelli e corna. Per propiziare la pioggia e scongiurare la carestia, i Basotho danno vita a elaborate cerimonie durante le quali effettuano sacrifici animali e accompagnano con canti e danze rituali le preghiere dei moroka-pula (“stregoni della pioggia”) che invocano gli spiriti delle nuvole. Poiché vivono a un passo dal cielo, sono convinti che le loro suppliche non restino inascoltate. E se l’acqua si ostina a non arrivare, in genere fanno ricadere la colpa sui politici, accusati di essere avidi e corrotti. Come dire: “Non piove, governo ladro”.

(di Doroty Madueke)

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