I piani segreti per deportare i palestinesi di Gaza (e non solo) in Africa

di claudia
migranti

di Stefano Pancera

Dagli accordi USA con Rwanda, Uganda ed Eswatini per deportare migranti espulsi ai contatti tra Israele e governi africani per trasferire palestinesi da Gaza: l’Africa torna terreno di scarico delle crisi globali. Una strategia occidentale di esternalizzazione che riaccende lo spettro del neocolonialismo.

C’è un filo rosso che attraversa le cronache di quest’estate africana e che riporta alla memoria i peggiori fantasmi del passato coloniale: l’idea che il continente possa trasformarsi una volta di più in una lavagna bianca su cui qualcuno scarabocchia i propri problemi, convinto di poterli cancellare dal proprio territorio e riscriverli altrove.

È la sensazione che emerge dalle notizie, sempre più insistenti, su possibili piani per “rilocalizzare” i Gazawi in Paesi africani. Non è la prima volta che circola un’idea del genere, e ogni volta viene presentata come ipotesi, scenario, “migrazione volontaria”. Anche solo il fatto che se ne discuta — che rimbalzino “indiscrezioni” e bozze di accordi — alimenta la percezione di un Occidente che pensa ancora che alcuni paesi africani possano trasformarsi nel contenitore di crisi altrui.

Chissà cosa si sono detti Donald Trump, suo cognato Jared Kushner, l’ex premier britannico ed ex inviato europeo per il Medio Oriente Tony Blair, e il ministro israeliano Gideon Saar, nella riunione top secret sul futuro di Gaza la scorsa settimana a Washington Sarebbero loro i veri registi dell’operazione del “day after” a Gaza. Quello che si è deciso nel segreto dell’Oval Office alla Casa Bianca (per l’occasione tornato curiosamente ad essere inaccessibile alla stampa) lo si saprà nelle prossime settimane poco alla volta, tra mezze smentite e qualche ammissione.

Stiamo parlando di due lati della stessa medaglia e di un’unica logica: scaricare popolazioni indesiderate dall’Occidente al cuore dell’Africa. Il primo lato è già realtà: da luglio Rwanda, Sud Sudan, Eswatini e Uganda hanno firmato accordi ufficiali con Washington per ospitare migranti “terzi”, ovvero persone né americane né africane, trasferite oltreoceano per imposizione politica.

Il caso più emblematico forse è il Rwanda: a metà agosto sono arrivati alcuni deportati direttamente dagli USA. Il governo parla di un’intesa che potrebbe arrivare a 250 persone deportate contro la loro volontà. In Eswatini, la piccola monarchia dell’Africa australe, i primi deportati sono sbarcati a luglio. Provenivano da Vietnam, Giamaica, Laos, Cuba e Yemen. A rendere possibile questa macchina di deportazioni è stata la decisione cruciale della Corte Suprema americana, che il 23 giugno 2025 ha sospeso un’ingiunzione che bloccava i trasferimenti verso Paesi terzi.

Questa prima fase già operativa aprirebbe la strada a uno scenario ancora più ampio: delegare a governi africani, presenti e futuri, la gestione complessiva dei flussi migratori che l’Occidente non intende più affrontare sul proprio territorio. Si tratta di una strategia che riflette la nuova tendenza delle potenze occidentali: esternalizzare il controllo dei movimenti di popolazione, trasformandolo in un “servizio” da appaltare ad altri.

Il secondo lato che da tempo è in forma di progetto, tra inchieste e smentite, è ancora più controverso: deportare i palestinesi di Gaza in altri paesi, tra cui Sud Sudan, Somalia e Somaliland, Libia.

gaza

Tutto è riesploso a metà agosto, quando Associated Press e Reuters hanno rivelato contatti tra Israele e governi dell’Africa orientale (tra cui Sud Sudan e Somaliland) per ipotizzare lo spostamento di palestinesi fuori dalla Striscia. Subito dopo, a Juba (capitale del Sud Sudan) con tempismo perfetto è stato firmato un Memorandum of Understanding con una delegazione israeliana. Non c’è nessun accordo operativo, si affrettano a smentire le parti, ma Reuters ha confermato che il tema  è entrato — almeno come ipotesi — nelle conversazioni diplomatiche.

Notizia che ha immediatamente sollevato un’ondata di polemiche e smentite ufficiali. Il ministro degli Esteri sudsudanese ha definito le indiscrezioni “infondate e prive di riscontro”. Una smentita inevitabile ma che non smentisce le sei fonti che alla Associated Press hanno confermato l’esistenza di discussioni su un possibile piano di reinsediamento, che farebbe parte di un più ampio sforzo israeliano per la cosiddetta “migrazione volontaria” dalla Striscia di Gaza. L’agenzia di stampa ha chiesto chiarimenti a fonti statunitensi, le quali però non hanno voluto rilasciare dichiarazioni sulle trattative diplomatiche, considerate riservate. Al contrario, Joe Szlavik, fondatore di una società di lobbying americana che collabora con il Sud Sudan, avrebbe riconosciuto l’effettiva esistenza dei colloqui, precisando però che il coinvolgimento di Washington non è diretto.

Un’idea non nuova che torna ciclicamente sotto forme diverse: “migrazione volontaria”, “opportunità di reinsediamento”, “piano di cooperazione”. È la geopolitica di corto respiro.

A confermare il quadro che starebbe prendendo forma, l’inchiesta del Financial Times che racconta come la società americana Boston Consulting Group ha elaborato complessi scenari di “migrazione volontaria” (sic!) dei palestinesi verso il Corno d’Africa, con incentivi economici e programmi di reinsediamento. Dopo le rivelazioni la società di ricerca ha parlato di “iniziativa non autorizzata” ma il messaggio che passa è chiaro: se ne discute.

Le reazioni non si sono fatte attendere. Amnesty International e Human Rights Watch hanno denunciato la violazione del diritto internazionale e il rischio di configurare un crimine di guerra. L’Unione Africana ha ammonito già in primavera: “L’Africa non può accettare di diventare deposito di popolazioni espulse da altri territori”.

Dopo aver ridimensionato in maniera significativa i fondi di UsAid, con tagli che hanno inciso soprattutto sull’Africa, la politica estera di Donald Trump sembra sfruttare le fragilità del continente per esercitare una nuova ulteriore forma di pressione politica. In un momento in cui molti Paesi africani faticano a trovare un percorso stabile, complice anche l’imminente scadenza dell’African Growth and Opportunity Act prevista per settembre, si sta forse creando un terreno fertile perché Washington stringa alcuni governi africani in una nuova trappola di dipendenza.

Fino a quando l’Africa sarà percepita come il “piano B” del mondo?

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