Educazione interculturale, un vantaggio per tutti

di Stefania Ragusa

Come parlare di migrazione ai bambini? E’ una questione ricorrente e trasversale, che investe tutti i genitori e gli educatori, anche quando i piccoli a cui si fa riferimento sono figli di immigrati e hanno, come si sente dire sempre più spesso, “radici multiple” (a proposito di questo, segnaliamo con piacere il laboratorio Infanzia e Diversità, che Valentina Migliarini terrà il 7 marzo nell’ambito del Festival DiverCity a Milano). Noi ce ne siamo occupati recentemente, attraverso la segnalazone di un libro, e adesso torniamo a parlarne con Gabriella Lessana, che è formatrice per la Fondazione Ismu e, in particolare, tiene corsi agli insegnanti di italiano L2.

«I genitori hanno spesso il timore di esporre i bambini ad argomenti che considerano troppo dolorosi e complessi: è comprensibile, ma si tratta di una paura che va superata o con cui, per lo meno, bisogna scendere a patti», osserva Lessana. «Il dolore e la complessità esistono, fanno parte della vita e far finta che così non sia non è una soluzione. Il punto è piuttosto trovare il linguaggio giusto».
E come si fa? «Ci sono varie strade che possono essere percorse e talvolta fatte incrociare. Per esempio, si può introdurre e sviluppare il tema a partire dalla propria storia famigliare. Quante persone della famiglia vivono effettivamente nel posto in cui sono nate? Spostarsi è la normalità, e può avvenire lungo tragitti più o meno ampi. Il nonno è venuto a Milano dalla Puglia e i genitori di Ahmed sono partiti dal Marocco. Il nonno ha preso il treno molti anni fa; i genitori di Ahmed hanno preso l’aereo. Ma ancora prima, molto prima, tante altre persone si sono spostate. La vicenda dell’umanità è fatta di migrazioni piccole e grandi».
Bisogna fare capire, insomma, che spostarsi da un luogo a un altro è un fatto antico e normale?
«Esattamente. Ma anche invitarli a pensare come potrebbero sentirsi loro se, a un certo punto, dovessero lasciare le loro cose, i loro compagni, la loro quotidianità e andare, per esempio, in un’altra scuola. Poi c’è un altro passaggio essenziale: quello dal generale al particolare. Bisogna far capire ai bambini che i protagonisti di questi “movimenti” sono persone singole e l’una diversa dall’altra. Ogni persona, piccola o grande che sia, ha un nome, una storia, sentimenti, caratteristiche, legami, ricordi. Personalizzare aiuta a non generalizzare e per i bambini la personalizzazione va di pari passo con la conoscenza».
In altre parole, bisogna fare incontrare i migranti? «Sarebbe molto utile. Questo tipo di incontro non si può pianificare a tavolino ma va senz’altro incoraggiato. Questo avvicinamento può essere facilitato e mediato anche dalle letture. Numerosi libri affrontano il tema migrazione dal punto di vista dei bambini e sono sicuramente utili. Andrebbero però presi in considerazione anche quei testi che si confrontano con la diversità dei punti di vista e delle esperienze in modo più ampio e generale. I viaggi di Gulliver, per esempio. O il Piccolo Principe. Un altro filone che consiglierei è quello che tratta il processo migratorio degli animali».
Può essere utile invitare a scuola i genitori di bambini di origine straniera e coinvolgerli in attività formative? «Lo è per i bambini e lo è per gli adulti. Dobbiamo tener presente che l’ingresso dei figli a scuola per i genitori rappresenta spesso una migrazione nella migrazione. I modelli educativi possono differire enormemente da un paese all’altro ed è fondamentale che queste differenze siano recepite e comprese, non imposte con superiorità. Il coinvolgimento facilita la comprensione reciproca».
Come rapportarsi alle diversità linguistiche? «Valorizzandole. Per esempio mostrando come uno stesso concetto possa essere espresso con parole diverse. Questo permette tra l’altro di stimolare la mobilità cognitiva. E’ un esercizio utilissimo, che in assenza di bambini di origine straniera rischierebbe di diventare artificioso. Così invece prende vita. Bisogna lavorare sui diversi punti di vista anche in un’ottica geografica. I vari tipi di planisfero, per esempio, sono strumenti formidabili in questo senso. Ecco come si vede il mondo dalla Cina, oppure dal SudAfrica. E’ importante che insegnanti e genitori capiscano che l’educazione interculturale non è una concessione finalizzata a migliorare l’inserimento di un piccolo gruppo di bambini, ma un’opportunità volta a fare diventare TUTTI i bambini cittadini del mondo».
E’ un vantaggio generale, insomma «Sì, reso possibile proprio dalla mescolanza che caratterizza la nostra epoca. Accogliere, educare alla diversità, allargare la visuale, far capire che non c’è un solo orizzonte serve a tutti. Io so una cosa e tu ne sai un’altra. Mettiamole insieme e sapremo entrambi due cose».

(Stefania Ragusa)

 

 

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