di Mario Giro
Nell’Africa subsahariana, soffre di disturbi mentali di vario tipo fino a un adolescente su quattro. Tra leggi obsolete, assenza di cure e stigma sociale, la salute mentale resta un’emergenza silenziosa. Pochi i centri che offrono assistenza, spesso grazie a iniziative individuali come quella di Grégoire Ahongbonon.
Nell’Africa subsahariana, la salute mentale degli adolescenti è una crisi silenziosa, largamente trascurata. Studi recenti dimostrano che i disturbi mentali sono molto diffusi tra i giovani della regione, con percentuali significativamente superiori rispetto ai loro coetanei dei Paesi a reddito più elevato. A livello globale, si stima che soffra di problemi psicologici tra il 10% e il 20% dei bambini e adolescenti. Ma un’analisi sistematica pubblicata su Plos One nel 2021 ha rilevato che in Africa subsahariana vive difficoltà psicologiche gravi circa un giovane su sette e che quasi il 10% soddisfa i criteri per una diagnosi psichiatrica. Tra i quasi 100.000 adolescenti africani inclusi nei 37 studi analizzati (dal 2008 al 2020), le percentuali sono allarmanti: depressione (26,9%), ansia (29,8%), disturbi emotivi e comportamentali (40,8%), sintomi da stress post-traumatico (21,5%) e pensieri suicidari (20,8%). Questi numeri impressionanti evidenziano una vera e propria emergenza, non solo un problema ma una specie di pandemia che dovrebbe allarmare tutti, considerando soprattutto che entro metà secolo i giovani africani sotto i 25 anni saranno oltre il miliardo, una massa enorme. E sempre più fragile.

Oltre ai fattori comuni ad altri contesti – come l’instabilità emotiva dell’adolescenza – in Africa pesano ulteriori condizioni di rischio: povertà estrema, famiglie disgregate, esposizione alla violenza, impatto dell’Hiv/aids e, più di recente, le conseguenze psicologiche della pandemia da covid-19. La Mentally Aware Nigeria Initiative, una delle principali reti per la salute mentale giovanile nel continente, denuncia la quasi totale assenza di risposte istituzionali. Le leggi sono spesso obsolete, retaggio dell’epoca coloniale: in Nigeria, per esempio, la normativa vigente si chiama ancora Lunacy Act, ovvero “legge sui lunatici”. Le strutture sanitarie sono rare, mal equipaggiate e localizzate solo in alcuni Paesi. Dei 54 Stati africani, solo 16 hanno prodotto dati significativi su questo tema.

Lo stigma sociale nei confronti della malattia mentale, inoltre, scoraggia la diagnosi e l’accesso alle cure. Il destino riservato ai malati mentali africani è spaventoso. La risposta più comune resta la medicalizzazione estrema: farmaci somministrati in modo indiscriminato per sedare i pazienti, talvolta per tutta la vita, senza reali percorsi terapeutici. In alcuni casi, si ricorre ancora a pratiche disumane come la reclusione o l’incatenamento. Tuttavia ci sono anche segnali di speranza. Uno di questi porta il nome di Grégoire Ahongbonon, un ex gommista originario del Benin. Nel 1990, vivendo in Costa d’Avorio, rimase colpito nel vedere una persona affetta da disturbi mentali rovistare tra i rifiuti. Da allora ha dedicato la sua vita a dare dignità e cura a chi soffre. Ha fondato l’associazione San Camillo de Lellis, che ha iniziato raccogliendo pochi pazienti in un rifugio improvvisato, dove li liberava dalle catene e garantiva assistenza medica. Oggi l’organizzazione è attiva in Costa d’Avorio, Benin, Togo e Burkina Faso, con numerosi centri di accoglienza e lavoro. Supportata anche da collaborazioni internazionali, è diventata un punto di riferimento per tutto il continente. L’Africa ha bisogno urgente di politiche pubbliche inclusive, di investimenti nella salute mentale e di una rivoluzione culturale che abbatta lo stigma. Ma servono anche modelli concreti e persone come Grégoire, che ogni giorno dimostrano che un’altra strada è possibile: quella della dignità, della cura e dell’ascolto.