di Isabella De Sinno – Centro Studi Amistades APS
Cina e India hanno sviluppato strategie competitive nel settore agricolo dell’Africa orientale (2014-2025), particolarmente in Etiopia, Tanzania e Malawi. La Cina con Centri Dimostrativi e investimenti ittici, l’India con cooperazione Sud-Sud e farming commerciale. Nonostante l’aumento degli investimenti in questa regione, la sicurezza alimentare risulta peggiorata dopo il 2015, rivelando limiti strutturali nell’efficacia di questi approcci geopolitici.
Il ruolo della Cina nella costa orientale africana, in particolare in Tanzania e Malawi, si è sviluppato soprattutto nell’ultimo decennio (2014-2025). Il Paese infatti, ha dispiegato una rete di Agricultural Technology Demonstration Centers (ATDC) come principale strumento di trasferimento tecnologico e soft power agricolo. Il caso documentato di ATDC Tanzania rappresenta questo modello: vi sono numerosi centri gestiti congiuntamente da imprese di Stato cinesi e istituti tecnici, dove si conducono demo-plot, formazione di campo e adattamento locale di pratiche colturali. L’obiettivo dichiarato è duplice: promuovere rese attraverso tecnologie agronomiche “provate” in Cina, e al contempo costruire legami relazionali con governi e agricoltori ospitanti, creando così una “dipendenza” da expertise e input cinesi. Tuttavia, l’efficacia degli ATDC dipende fortemente dalla qualità della coordinazione con i servizi pubblici locali (estensione agricola, credito, mercati).
Quando l’ATDC rimane un’isola tecnologica—disconnessa da sistemi di credito rurale, da infrastrutture di commercializzazione e da decisioni politiche sui prezzi agricoli—i benefici risultano effimeri al termine del progetto. Il centro dimostrativo, cioè, non garantisce che i piccoli agricoltori locali adottino le nuove pratiche su larga scala, se mancano i servizi abilitanti. Insieme ai Centri dimostrativi agricoli (ATDC), la Cina ha puntato sull’espansione della flotta di pesca d’altura e investimenti portuali. Dal 2017, il 13° Piano quinquennale cinese ha accelerato il supporto alla pesca d’altura cinese nelle zone economiche esclusive (ZEE) della costa orientale africana, parallelamente a investimenti massicci in infrastrutture portuali costiere. Questo approccio impatta la sicurezza alimentare africana attraverso due canali: l’accesso alle proteine ittiche, che diminuisce se le catture cinesi esauriscono gli stock locali; e lo sviluppo di catene del freddo e logistica portuale che, quando ben gestite, possono migliorare conservazione e distribuzione di prodotti alimentari. La Cina ha inoltre integrato un disegno infrastrutturale più ampio: la Belt and Road Initiative (BRI), lanciata nel 2013, ha fornito il quadro politico e finanziario per investimenti coordinati in porti, ferrovie, parchi industriali agricoli e zone di libero scambio, con l’obiettivo dichiarato di migliorare connettività commerciale e accesso ai mercati.

L’atteggiamento dei governi dell’Africa orientale verso questi investimenti rivela anche conflitti interni tra classi dirigenti, burocrazie e comunità locali. In Tanzania, il Ministero dell’Agricoltura, Hussein Bashe e il Ministro degli Affari Esteri Mahmoud Thabit Kombo, hanno priorità diverse: il primo è sotto pressione dai piccoli agricoltori per proteggere i suoli e le fonti d’acqua dai mega-progetti cinesi; il secondo vuole mantenere buone relazioni con Pechino. Le municipalità costiere di Dar es Salaam e Zanzibar, gestite da amministrazioni con scarso coordinamento con il governo centrale, affrontano perdita di accesso comunitario alle zone di pesca tradizionali quando la Cina espande le sue concessioni ittiche.
D’altro canto l’India ha privilegiato una strategia diversa, incentrata su piattaforme di cooperazione Sud-Sud e triangolare (spesso coinvolgendo anche attori statunitensi). In questo modello, l’India si posiziona come fornitrice di expertise su questioni quali efficienza idrica, gestione dei suoli, agricoltura resiliente al clima, e soluzioni digitali low-cost. Tecnologie di “micro-irrigazione” e sistemi solari off-grid possono alzare rese e ridurre povertà rurale; tuttavia, gli ostacoli all’adozione rimangono di natura istituzionale e strutturale: tenure della terra incerta, norme locali sulla gestione idrica, accesso limitato al credito, assenza di servizi tecnici. L’Etiopia è l’epicentro della presenza indiana in Africa per il farming commerciale. Nel decennio successivo alla crisi alimentare 2007-2008, operatori indiani hanno acquisito o negoziato concessioni significative: il gruppo saudita Star Agricultural Development (gruppo Al-Amoudi, con azionisti indiani) ha acquisito 25.000 acri nella regione Etiope di Gambella per produzione di riso destinato all’export e Karuturi Global (principale azienda agricola indiana) ha acquisito 740.000 acri nel 2010 per coltivazioni di grano, mais e riso. L’agency governativa etiope non è passiva.
Il governo federale etiope, guidato dal FDRE (Federal Democratic Republic of Ethiopia), ha strumentalizzato gli investimenti indiani per perseguire l’autosufficienza alimentare nazionale, un imperativo geopolitico dopo le carestie degli anni ‘80. Queste concessioni sono state nello stesso tempo utilizzate dalla classe dirigente etiope come strumento di controllo territoriale nelle regioni periferiche (Gambella, Oromia), spesso ai danni delle comunità pastorali locali e dei piccoli agricoltori. Mentre le aziende indiane operano nelle zone agro-ecologicamente fertili della Rift Valley, i piccoli agricoltori di sussistenza rimangono marginalizzati nelle zone agro-ecologiche meno produttive, con accesso limitato al credito rurale gestito da banche private con criteri stringenti, assenti servizi di estensione agricola pubblica e ridotta partecipazione alle catene di valore globali che alimentano l’export indiano. In Etiopia, organizzazioni di pastori, come Pastoralist Forum, e ONG locali hanno contestato gli investimenti indiani nella Rift Valley etiope, documentando perdite di accesso comunitario alle acque dei fiumi per la produzione di riso export.

La dinamica di acquisizione di terre e risorse alimentari in diversi Paesi africani Africa non è tuttavia esclusiva di India e Cina. Attori del Golfo—come Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti—hanno investito in grandi asset agricoli nel Corno d’Africa fin dai primi anni 2010, spesso in partnership con operatori indiani o cinesi. Questa “diversificazione dei poli di influenza” complica il quadro: non c’è una semplice bipolarità India vs. Cina, ma piuttosto un ecosistema di attori (nazionali, regionali, multilaterali) che manovrano terre, credito, infrastrutture logistiche e concessioni ittiche per costruire “blocchi” di influenza territoriale e commerciale. La Cina ha legato investimenti agricoli, portuali e logistici a una narrativa di “cooperazione win-win” e “shared prosperity” attraverso la BRI. Questa strategia narrativa amplifica l’attrattività diplomatica in contesti dove la domanda primaria è sviluppo infrastrutturale e accesso a mercati globali, non prioritariamente sicurezza militare. L’India, al contrario, utilizza la retorica del “Sud globale”, la memoria della propria rivoluzione verde (anni 1960-70) e il modello della cooperazione triangolare come strumenti per proporsi quale partner “tecnico” più responsabile e non predatorio, soprattutto in forum multilaterali (G20, BRICS, piattaforme ONU). Questa narrazione risuona in contesti dove attori africani temono un “nuovo imperialismo” e cercano partnership alternative ai modelli occidentali. Nel decennio 2014-2024, la Cina ha affiancato alla dimensione economica una strategia di sicurezza sempre più assertiva per proteggere investimenti, cittadini e personale nei teatri africani: cooperazione militare mirata, diplomazia di crisi, basi navali (come la base di Gibuti). Questo shift indica che asset agro-ittici, logistici e infrastrutturali vengono concettualizzati come infrastrutture strategiche di Stato anziché come semplici investimenti privati. Tale postura ha conseguenze politiche rilevanti: aumenta la capacità di condizionamento sui governi ospitanti (se la Cina protegge l’asset, il governo africano ha incentivi a rimanere “amichevole”), ma alimenta anche diffidenze tra Paesi concorrenti e presso la società civile locale.

Una domanda cruciale rimane: l’intensità della competizione India-Cina per investimenti agricoli in Africa ha corrisposto a miglioramenti nella sicurezza alimentare del continente? Gli indicatori panafricani FAO-based e l’andamento del Global Hunger Index suggeriscono una risposta negativa. Mentre il valore nominale degli investimenti esterni in agricoltura africana è cresciuto nel decennio 2014-2024, i tassi di insicurezza alimentare e malnutrizione infantile hanno subìto un peggioramento dopo il 2015, con regressioni più acute nelle regioni Sahel, Corno d’Africa e Sud-Est africano. Perché?
Almeno per quattro ragioni strutturali: Gli investimenti agricoli si concentrano in zone agro-ecologicamente fertili e politicamente “stabili”, non dove la fame è più acuta. La logica è comprensibile dal punto di vista dell’investitore privato, ma genera una geographical mismatch tra bisogno alimentare e flussi di capitale. Molti progetti India-Cina mirano alla produzione di commodity ad alto valore (riso, soia, pesce d’altura) destinate all’export; il beneficio di sicurezza alimentare locale rimane indiretto e spesso non materializzato, perché i ricavi rimangono nelle mani dell’operatore agricolo e dello Stato, non raggiungono i consumatori locali. Sebbene i centri dimostrativi cinesi e i programmi indiani di trasferimento tecnologico siano concettualmente robusti, la loro efficacia nel scalare benefit a livello nazionale è ostacolata da assenza di servizi agronomici pubblici, credito rurale insufficiente, e marginalizzazione delle economie locali nelle catene di valore globali. Per i governi africani, la leva negoziale cruciale consiste nel legare concessioni di terra, accesso agli stock ittici, e prese di potere in policy agricola a obblighi robusti di: trasferimento di conoscenza, servizi di estensione agricola pubblica, tutela dei mezzi di sussistenza delle comunità, e rendicontazione pubblica su esiti misurabili. Per India e Cina, la vera “vittoria” geopolitica nel lungo termine passerà non dal massimizzare il volume di progetti bandiera, bensì dal dimostrare che i loro investimenti agricoli migliorano realmente disponibilità, accesso e stabilità alimentare nelle aree più insicure.


