Di Gianfranco Belgrano
Per ricordare la figura di Ngugi wa Thiongo, gigante della letteratura africana scomparso mercoledì 28 maggio, pubblichiamo una nostra intervista realizzata nel 2015, ancora attuale dopo un decennio. Ngũgĩ wa Thiong’o punta l’attenzione sulla sfida alla colonizzazione culturale attraverso la lingua, esortando a riscoprire le lingue africane come strumenti di libertà. L’Africa, dice, deve contribuire al proprio futuro, non solo a quello dell’Occidente.
Sottrarsi alla potenza dei poteri forti, dei vecchi e nuovi colonialismi, anche attraverso la lingua, perché la libertà, la cultura e l’uguaglianza tra le culture passa anche dal suono delle lingue parlate dai popoli. È uno dei punti su cui si è soffermato Ngũgĩ wa Thiong’o, presentando a Roma l’edizione italiana del libro ‘Decolonizzare le menti’. Scrittore, drammaturgo e saggista keniano, Ngũgĩ è una delle figure intellettuali di maggiore rilievo non solo del continente africano, ma del panorama culturale mondiale.
A Roma (nel 2015, ndr), su invito della casa editrice Jaca Book – che ha finalmente curato l’edizione italiana di ‘Decolonizzare le menti’, a 30 anni dall’uscita di un libro comunque ancora attuale – e della Libreria Griot, Ngũgĩ ha sottolineato la bellezza delle lingue, “depositarie di cultura”. Una bellezza nella diversità, ma che nel tempo è stata messa in discussione con la forza: “In certi momenti della storia c’è chi ha sostenuto che alcuni suoni sono più suoni di altri, la loro lingua è più lingua di altri…Invece dobbiamo pensare alle nostre lingue non come gerarchie, ma come reti. E in una rete si dà e si riceve in maniera paritetica”.
Alcuni anni dopo l’indipendenza del Kenya, lei decise di non scrivere più in inglese ma di utilizzare per i suoi scritti la lingua kikuyu. Fu una scelta dall’importante valore culturale e politico, ma fu anche una scelta ostacolata dal potere. Perché questa scelta e quale è il bilancio dopo tanti anni?

Fu una scelta politica, una cosciente decisione politica. Per questa decisione nel 1977 fui imprigionato in un carcere di massima sicurezza in Kenya. Andai in carcere per il lavoro fatto in campo teatrale. In prigione comincia a riflettere seriamente sull’ineguale bilaciamento di poteri tra la lingua inglese e le lingue africane.
Sono molto felice di aver preso allora quella decisione anche se questo mi costrinse a vivere fuori dal Kenya, paese in cui però oggi posso tornare. Certo è una contraddizione il fatto di aver vissuto in ambienti in cui si parla inglese, a Londra prima e negli Stati Uniti negli ultimi 20 anni. Ma è una contraddizione che ho vissuto come un modo per raggiungere ancora meglio il Kenya, la mia casa, attraverso la lingua kikuyu.
Come giudica in questo senso la scelta di riconosce il kiswahili come lingua ufficiale da parte dei paesi membri della Comunità dell’Africa orientale?
È una lingua parlata in Tanzania, Kenya, Uganda ma anche in altre regioni dell’Africa centrale e australe. È a tutti gli effetti una lingua africana.
È passato ormai mezzo secolo dall’indipendenza dei paesi africani. Cosa è rimasto nell’ideale politico che animava il movimento che portò alla decolonizzazione e quali sono i sogni che sono stati invece traditi? L’Africa è il continente del futuro?
Mi sorprende che ora che ho quasi 78 anni i temi di cui 30 anni fa parlavo, scrivevo siano ancora presenti, contino ancora. E di fatto hanno dato vita a scritti di cui ho gli armadi pieni a casa. Io penso che l’Africa costruisce il futuro di tutti gli altri continenti e in modo particolare di quello che si chiama Occidente. Questo avviene fin dal XVII secolo e attraverso mezzi diversi: con il commercio dei corpi degli africani, cioè con il traffico degli schiavi; traffico ricco che ha assicurato pingui profitti a chi ci ha investito; traffico di corpi messi sopra a navi, trasportati per svolgere lavori di ogni genere con dei profitti per l’investitore anche del 600%. Attraverso le piantagioni, che erano una variazione sul tema della schiavitù che sono state quelle che hanno consentito l’accumulo di capitale perché hanno alimentato la produzione industriale europea, in modo particolare dell’Inghilterra. Tra le prime fabbriche ci sono stati cantieri navali dove venivano costruite quelle navi che poi venivano in Africa a caricare schiavi. E ancora nel XIX secolo attraverso le colonie. La colonializzazione divenne così importante per la struttura economica del mondo occidentale che a un certo punto anche l’Italia, fatta l’unità, si rese conto di ‘essere in ritardo’. Non avere colonie a un certo punto significava non contare nulla.

E oggi secondo lei qual è la situazione?
Ancora oggi l’Africa è il principale donatore di risorse all’Occidente. L’Europa ha dato agli africani gli accenti: sapete che c’è un’Africa francofona, un’Africa anglofona, un’Africa lusofona; l’Africa ha dato all’Europa l’accesso alle proprie risorse. Accenti contro accessi. Così c’è oggi un ceto medio, una borghesia africana occupata a specchiarsi e a perfezionare i propri accenti nelle lingue europee e che si studia il modo di cambiare colore di pelle e di consistenza dei capelli; mentre gli europei si occupano attivamente di perfezionare gli strumenti di accesso alle risorse del nostro continente. Così è andato per secoli e così va ancora. Dunque l’Africa, tutt’oggi, continua a contribuire al futuro di tutti quanti gli altri. Il più grande continente del mondo, ancora ricchissimo di risorse, dona ancora oggi le risorse per costruire il futuro del resto del mondo.
Una vera svolta per l’Africa sarebbe quella di contribuire al proprio futuro piuttosto che al futuro di altri e dell’Occidente in particolare. Penso che l’Africa deve cominciare a trattare meglio se stessa.
Parliamo di Kenya. Negli ultimi mesi e anni abbiamo visto fatti tragici e cruenti far circolare una certa immagine del Kenya.
In un posto in cui ci sono cristiani, musulmani e indù sarebbe molto poco divino avere persone che sostengono che il proprio dio è superiore agli altri. La religione non può essere la scusa per uccidere innocenti.