Fabrizio Floris | Land grabbing, il furto delle terre

di Enrico Casale
land grabbing

Si tratta di investimenti che non sono in sé negativi, perché sono capitali che entrano in Paesi a basso reddito, possono favorire l’occupazione, le esportazioni, trasferire conoscenze, ma il problema – come racconta Edward Loure (un attivista masai) – è che «questi uomini avviano delle operazioni economiche che non ci danno da mangiare»

C’è un fenomeno che in lingua inglese chiamano land grabbing (accaparramento delle terre), emerso come un fenomeno globale nel periodo successivo alla crisi finanziaria globale del 2007-08. Le ragioni sono molteplici, in primis economiche – imprese multinazionali che investono nei Paesi per aumentare le produzioni di monoculture intensive (mais, soia, olio di palma, canna da zucchero, ma anche prodotti agricoli per la trasformazione in biocarburanti) a costi bassi e destinate al mercato internazionale – ma anche geopolitiche: il cambiamento climatico spinge molti Paesi alla ricerca dell’autonomia alimentare favorendo l’acquisizione di grandi porzioni di terra fertile. I principali Paesi che praticano l’acquisizione di terre sono: Stati Uniti, Malaysia, Cina, Singapore, Brasile, Emirati Arabi Uniti.

Si tratta di investimenti che non sono in sé negativi, perché sono capitali che entrano in Paesi a basso reddito, possono favorire l’occupazione, le esportazioni, trasferire conoscenze, ma il problema – come racconta Edward Loure (un attivista masai) – è che «questi uomini avviano delle operazioni economiche che non ci danno da mangiare».

Occorre entrare nel merito del perché le operazioni di land grabbing differiscono per legalità, trasparenza, prodotti e coinvolgimento delle comunità locali, anche se storicamente il latifondismo non è stato portatore di vantaggi per le piccole comunità. Secondo l’osservatorio Land Matrix, un’iniziativa indipendente e globale di monitoraggio della terra, l’Africa è il continente in cui le acquisizioni di terreni su vasta scala sono più significative. Al momento risultano conclusi 557 accordi per un totale di 16 milioni di ettari (più o meno la metà della superficie dell’Italia), ma sono in corso trattative per ulteriori 10 milioni di ettari, mentre sono falliti accordi riguardanti altri 8 milioni di ettari. Tuttavia, si ritiene che anche in quest’ultimo caso gli impatti siano duraturi, di ampia portata, profondi, a livello sia sociale che ambientale e politico. Infatti, secondo Jennifer Franco del Transnational Institute, indipendentemente dallo stato attuale di un accaparramento – sia esso perseguito, ritirato o inventato/immaginato –, gli effetti sono comunque reali.

Anche se l’accaparramento non va a buon fine, gli abitanti del villaggio interessati non necessariamente o automaticamente ottengono l’accesso alle risorse o il loro controllo, né perdono il senso di insicurezza, minaccia e precarietà. Per esempio, in Etiopia, nella regione del Gambella, la Karuturi Indianflower ha interrotto il suo piano di acquisizione nel 2012, ma il governo ha continuato a cercare nuovi investitori per lo stesso sito, quindi l’insicurezza è rimasta.

Secondo la Fao, perché si possa parlare di land grabs l’acquisizione deve riguardare un terreno di almeno 10.000 ettari, coinvolgere un governo straniero e avere un impatto negativo sulla sicurezza alimentare delle comunità locali. Tuttavia, sempre secondo Jennifer Franco riferirsi solo alla terra è troppo poco: bisogna considerare il catch control, ossia il controllo di tratti relativamente vasti di terra e di altre risorse naturali, come l’acqua.

A gennaio, una società cinese ha deviato il corso del fiume Ouham, nella Repubblica Centrafricana, per setacciare e filtrare l’oro. Il missionario carmelitano Aurelio Gazzera, che il 27 aprile ha provato a raccontare l’accaduto, è stato arrestato e poi rilasciato dopo che tremila persone sono andate a riprenderlo. La società, in questo caso, non ha accaparrato terre, ma ne ha impedito l’uso sia inquinando l’acqua sia riducendo la portata del fiume.

Sia a livello locale che internazionale vi sono leggi e accordi in grado di tutelare le comunità locali, ma il problema è il loro rispetto. Una buona notizia in tal senso viene dal Kenya, dove il tribunale ha ordinato all’ex presidente Daniel arap Moi di pagare 10 milioni di dollari per aver sottratto illegalmente un terreno di 53 ettari alla signora Susan Cheburet nel periodo in cui egli era presidente. In genere questo tipo di sottrazioni non ha alcuna conseguenza perché per difendersi servono soldi, sia per gli avvocati sia per la corruzione presente anche nel sistema giudiziario. Inoltre ci sono casi in cui le persone non hanno titoli di proprietà, ma si basano su consuetudini precoloniali: il possesso della terra poggia sul concetto di proprietà comune.

La terra appartiene alla comunità e viene amministrata, con il favore degli antenati, dagli anziani. Ogni adulto ha diritto a usarla, un diritto che varia a seconda dello status, dell’età, ecc. Il capo della comunità ha il potere e la responsabilità di destinare la terra non utilizzata, oltre che di arbitrare le dispute e i diritti di usufrutto ereditabili. Questo funziona finché il terreno non diventa interesse di qualche potentato. Il problema, come spiega l’analista ugandese Mahmood Mamdani, «è il peccato originale dei sistemi politici africani: il rafforzamento, non l’eliminazione, dei rapporti gerarchici fra centro e periferia», tra chi decide e chi subisce le decisioni.

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Fabrizio Floris, una laurea in Economia e un dottorato di ricerca in Sociologia dei fenomeni territoriali e internazionali, è membro della cooperativa “Labins, laboratorio di innovazione sociale”. Ha insegnato Antropologia economica presso l’Università di Torino e ha svolto altri insegnamenti. Suo principale campo d’interesse sono gli insediamenti informali, in Italia come in Africa. Scrive per Il manifestoNigrizia e altre testate. Tra i suoi libri: Periferie esistenziali (Robin, 2018), Eccessi di città. Baraccopoli, campi profughi e periferie psichedeliche (Paoline, 2007), Baracche e burattini? La città-slum di Korogocho in Kenya (L’Harmattan Italia, 2003).

 

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