di Enrico Casale
Nata con l’indipendenza dell’Eritrea, la Chiesa ortodossa eritrea Tewahedo è da anni vittima del controllo e della repressione del regime, che ne soffoca autonomia e voce spirituale.
Una Chiesa giovane, ma da sempre perseguitata. Vescovi, sacerdoti, monaci e fedeli sono spiati, arrestati, vessati. Non c’è pace per la Chiesa ortodossa eritrea Tewahedo, vittima delle interferenze del regime di Isayas Afewerki.
Nata nel 1993, dopo l’indipendenza dell’Eritrea dall’Etiopia, con i suoi 3,5 milioni di fedeli è sempre stata un pilastro dell’identità nazionale. Negli anni successivi all’indipendenza, però, la classe dirigente eritrea ha trasformato il sistema politico in una dittatura feroce, nella quale le autorità controllano ogni aspetto della vita pubblica, inclusa la fede. Tanto che, nel 2024, Open Doors, organizzazione cristiana internazionale, ha inserito l’Eritrea al sesto posto tra i 100 Paesi che perseguitano i cristiani.
Sebbene lo Stato riconosca ufficialmente la Chiesa ortodossa, ne limita le attività e ne controlla ogni ambito. Nel 2006, il patriarca Abune Antonios, terzo leader della Chiesa, è stato deposto con l’accusa di resistere alle ingerenze statali, inclusa la richiesta di espellere membri del clero critici verso il governo. È stato poi sostituito da Abune Dioskoros. Antonios è rimasto agli arresti domiciliari fino alla sua morte, avvenuta nel 2022, senza mai rinunciare al titolo di patriarca. “La morte di Abune Antonios ha aperto gli occhi a molti fedeli – spiega a InfoAfrica un sacerdote eritreo che chiede di rimanere anonimo –. I funerali celebrati di notte per ordine del regime, che temeva contestazioni, e l’arresto di molti sacerdoti hanno reso evidente agli occhi di tanti cristiani la natura dittatoriale del governo eritreo”.
La sua deposizione ha creato una frattura all’interno della Chiesa. Molti membri della comunità ortodossa e diverse organizzazioni internazionali hanno denunciato la rimozione come “illegittima” e hanno continuato a riconoscerlo come patriarca legittimo. “Il regime – osserva il sacerdote – permette l’espatrio solo ai religiosi fedeli al presidente Isayas Afewerki. Esistono, però, molti sacerdoti critici, sia in patria sia all’estero, che vivono controllati dai simpatizzanti e dagli agenti del regime”.

Anche i fedeli sono intimoriti. “Temono – continua il religioso – che, qualora frequentassero sacerdoti o chiese critiche verso il regime, possano essere schedati e, di conseguenza, non possano tornare in patria, o che le loro proprietà in Eritrea siano sequestrate”.
Delicati anche i rapporti ecumenici. I legami con la Chiesa ortodossa etiope Tewahedo, dalla quale è nata quella eritrea, potrebbero essere ottimali, considerando che tra le due Chiese non esistono differenze sul piano teologico e dottrinale. Anche in questo caso, però, la politica condiziona profondamente la relazione. “Gli alti prelati vicini al regime si allineano alle direttive politiche – osserva il sacerdote –. Se l’Eritrea prende posizione contro l’Etiopia, allora i nostri vescovi raffreddano i rapporti con la Chiesa etiope. Se, viceversa, c’è un riavvicinamento, allora i religiosi riprendono le relazioni. La dipendenza dal potere politico è così forte che è difficile avere posizioni autonome. Schierarsi contro il regime è pericoloso, come dimostra il caso di Abune Antonios”.
Lo stesso vale per i rapporti con la Chiesa cattolica. “Con i cattolici abbiamo ottimi rapporti – conclude il sacerdote –. All’estero, molto spesso, le nostre comunità utilizzano chiese donate loro dalle diocesi cattoliche. Anche in questi casi, però, i prelati vicini al regime alternano momenti di avvicinamento ad altri di allontanamento. Purtroppo, non è la fede a comandare, ma la politica”.