CPR disumani, inutili e aperti nonostante il virus

di Stefania Ragusa

In Italia ne sono in funzione nove: a Torino in corso Brunelleschi, a Gradisca d’Isonzo in provincia di Gorizia, a Roma a Ponte Galeria, a Bari, a Brindisi, a Palazzo San Gervasio nel potentino, a Caltanissetta, a Trapani e a Macomer, in provincia di Nuoro.
I CPR, Centri Permanenenti per il Rimpatrio, si sono chiamati, inzialmente Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza (CPTA), nel 2009 sono diventati Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE), ma sono rimasti sempre identici a se stessi, continuando a svolgere la stessa discutibile funzione: concentrare dentro le gabbie persone in attesa di essere identificate ed espulse, non per avere commesso qualche reato ma per il fatto di essere stranieri senza permesso di soggiorno. Se si guarda la cosa in termini numerici, un’operazione costosa e senza senso. Nei CPR, come spiega in questa “pillola” Stefano Galieni, firma abituale di Corriere delle Migrazioni e presidente dell’associazione Adif,  è stata intercettata solo una frazione limitatissima dei cosiddetti “clandestini”: «tremila persone nei momenti di “massimo splendore e neanche la metà di questi veniva effettivamente rimpatriato». Attualmente, ossia in una fase poco “splendida”,  sono 252.

Tutto questo ha avuto sempre costi altissimi, spropositati rispetto all’entità degli obiettivi perseguiti. Costi di permanenza a cui bisogna aggiungere quelli per il volo di rimpatrio. Se si considerano gli aspetti umani della vicenda, il bilancio si fa ancora più pesante. Perché essere trattenuti senza nulla – ma proprio nulla – da fare e senza colpa, per periodi tra i 30 giorni e i 18 mesi  (sic!) a seconda del momento storico, è un’esperienza durissima: niente di paragonabile alla clausura che abbiamo sperimentato su scala nazionale in queste settimane e che ha portato più d’uno a perdere il senno.
Adesso, con l’Europa chiusa in nuovi confini dal Covid-19, è anche una scelta ai limiti della legalità, come rilevato dalla Commissaria ai Diritti Umani per il Consiglio d’Europa, Dunja Mijatović . Il 26 marzo scorso, lo ha detto espressamente, appellandosi a tutti i Paesi europei e chiedendo il rilascio dei trattenuti: «La detenzione per immigrazione a fini di rimpatrio può essere legittima solo qualora il rimpatrio possa effettivamente avere luogo. Al momento, è evidente che in molti casi questa non è una prospettiva concreta». Eppure in Italia non c’è stato alcun rilascio.
Per affrontare la questione degli irregolari potrebbero ovviamente esserci altre strade, certo meno spendibili in termini elettorali immediati, ma più efficaci e rispettose del diritto e dei diritti: il rilascio di un permesso per ricerca lavoro e la tutela di quanti (e sono tanti, tantissimi) abbiano perso il titolo di soggiorno per essere rimasti formalmente disoccupati, per esempio.
Di questo, dei migranti rimossi per settimane dal dibattito pubblico e poi strumentalmente ripescati per non fare marcire l’agricoltura italiana insieme con i raccolti e di altre cose attinenti, parleremo nel corso di un incontro zoom, venerdì pomeriggio, dalle 17.30 alle 19, con Stefano Galieni e altri ospiti di spessore: la sindacalista di origine angolana Isilda Armando, presidente di Anolf Lecco, l’avvocato Alessandra Ballerini, Sergio Bontempelli, Yawo Galli, del direttivo Fiom Cgil Modena, Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato, docente universitario e fondatore dell’Associazione Adif. Chi scrive si occuperà della moderazione.
Partecipazione  gratuita ma  l‘iscrizione è necessaria. Vi aspettiamo!

(Stefania Ragusa)

Nella foto d’apertura, un’opera dell’artista angolano Kiluanji Kia Henda, realizzata in occasione della sua prima mostra personale in Italia, che molto spazio ha dedicato al tema delle migrazioni e della “prigionia” con cui si tenta di fermarle.

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