di Giulia Beatrice Filpi
Il politologo tunisino Hatem Nafti ha denunciato nel suo ultimo libro “Il nostro amico Kais Saied” il pesante clima di repressione che sta vivendo la Tunisia. Nel Paese – spiega l’autore – le libertà di espressione, associazione, riunione pacifica e attività sindacale sono sempre più sotto attacco. Centinaia di persone vengono detenute per motivi politici senza garanzie di un processo equo.
In Tunisia, le libertà di espressione, associazione, riunione pacifica e organizzazione sindacale sono sotto attacco, con centinaia di persone recluse per motivi politici, senza aver potuto accedere a un giusto processo. A denunciarlo, a Roma, a pochi giorni dalla giornata internazionale dei diritti umani, che è stata celebrata ieri, è stato il politologo Hatem Nafti, saggista tunisino attualmente residente in Francia e membro dell’Osservatorio tunisino sul populismo, di passaggio in Italia per presentare il suo ultimo libro, “Notre ami Kaïs Saïed” (Il nostro amico Kais Saied, ed. Riveneuve, Paris, 2025). Il numero dei prigionieri di opinione è difficile da precisare, ha spiegato lo studioso, ma, con ogni probabilità, supera il migliaio: una cifra che si avvicinerebbe a quella dei dissidenti che si considerava languissero in carcere alla fine del regime di Zine El Abidine Ben Ali, che il popolo tunisino depose, a costo di un pesante tributo sangue, con la rivoluzione del 2010-2011. L’impossibilità di fornire stime esatte è dovuta in parte all’impiego smisurato della legge 2022/54, che punisce la diffusione online di notizie false, e che viene di fatto usata come grimaldello per sanzionare chiunque critichi il regime, non solo contro oppositori di spicco ma anche in contesti periferici e poco mediatizzati.

“Quando gli avvocati vanno in carcere per assistere un personaggio pubblico che finisce dentro per le sue opinoni, vengono a conoscenza di tanti casi meno noti di arresti politici, che riguardano persone comuni incolpate per aver espresso il proprio pensiero, magari esternando qualche lamentela online contro un funzionario locale, o mettendo like al contenuto sbagliato” ha commentato Nafti. L’occasione per le sue dichiarazioni è un incontro con la stampa organizzato da Amnesty International. A far scattare l’urgenza di convocare i giornalisti, spiegano i rappresentanti dell’organizzazione, sono stati, in particolare, gli arresti di personaggi pubblici avvenuti a Tunisi tra il 29 novembre e il 4 dicembre. In primis, quello della poeta, attivista femminista e militante politica Chaima Issaa, di 45 anni, prelevata con la forza da un gruppo di uomini incappucciati mentre tornava da una manifestazione per i diritti delle donne, il 29 novembre, come mostra un video divenuto virale.
Pochi giorni dopo, l’avvocato ed ex ministro dei diritti umani Ayachi Hammami, di 67 anni, è stato arrestato presso il suo domicilio. Dal momento dell’arresto, sia Issaa che Hammami hanno iniziato uno sciopero della fame per protesta, tuttora in corso. Il 4 dicembre, a finire dietro le sbarre, con una condanna a 12 anni di detenzione, è stato anche Ahmed Nejib Chebbi, presidente, 81enne, del “Fronte di salvezza nazionale”, una delle principali formazioni di opposizione, di cui fa parte anche la già citata Issaa. Gli arresti dei tre oppositori si inseriscono, insieme a quelli di altre 31 persone, nell’ambito di un’indagine che li accusa di “complotto contro lo Stato” e nel quadro della quale sono state comminate pene che vanno dai 5 ai 45 anni di detenzione. “Il suo progetto per me è chiaro” ha sottolineato Nafti, riferendosi a Saied: “distruggere tutti i corpi intermedi, mettere in atto un sistema di potere dove ci sono solo il popolo tunisino, da un lato, e il Presidente, dall’altro”.

Sotto attacco, in effetti, non sono solo le formazioni politiche di opposizione, ma anche, e da tempo, le ong, i sindacati, la stampa indipendente. Solo negli ultimi quattro mesi, come denuncia Amnesty, almeno 14 organizzazioni della società civile hanno ricevuto ordinanze del tribunale che sospendono le loro attività per 30 giorni. A subire queste misure sono state, tra le altre, alcune realtà chiave per la tutela dei diritti e l’informazione indipendente in Tunisia: l‘Associazione tunisina delle donne democratiche, il Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes), la sezione di Tunisi dell’Organizzazione mondiale contro la tortura (Omct), nonché due autorevoli media indipendenti nati dopo la rivoluzione, Nawaat e Inkyfada. Lunedì prossimo, 15 dicembre, ci sarà la prima udienza per gli operatori dell’associazione “Tunisie Terre d’asile” che vede imputati la ex direttrice Sherifa Riahi, Mohammed Jouou e altri loro colleghi, detenuti da oltre un anno senza processo per le loro attività lavorative.
“Per Kais Saied è tutto un complotto – sottolinea Nafti – Se l’economia va male, è a causa di ‘un complotto’, se in Libia arriva una tempesta che si chiama ‘Daniel’, con un nome ebraico, è per volontà del movimento sionista”. E, rispetto al tema dei migranti subsahariani, Saied grida al “piano di sostituzione etnica” ordito dall’Occidente. Proprio sfruttando questo vittimismo e innestando nel Paese un clima di sospetto, secondo l’analisi di Nafti, il presidente tunisino è riuscito a mantenere un alto livello di popolarità: “la maggior parte della popolazione pensa che Saied non sia direttamente responsabile dei mali della Tunisia ma che, anzi, faccia del suo meglio per porvi rimedio, sebbene debba confrontarsi a seri problemi ereditati dai governi che lo hanno preceduto”.

In questo contesto, comunque, manifestare resta ancora possibile, benché rischioso, e importanti organizzazioni come l’Unione generale dei lavoratori tunisini (UGTT), il principale sindacato del Paese, si stanno mobilitando con parole d’ordine più dure che in passato, non solo nei confronti del governo, ma anche verso il presidente. L’Unione ha da poco convocato uno sciopero generale per il 26 gennaio, rispettando una consuetiudine per cui il primo mese dell’anno, in Tunisia, è spesso il più “caldo” dal punto di vista delle mobilitazioni di piazza. Già sabato, mentre a Roma si svolgeva l’incontro con Nafti, nel centro di Tunisi più di mille persone sfilavano al grido “l’opposizione non è un crimine”. Del resto, di questa criminalizzazione “c’è poco da stupirsi – osserva ancora il politologo – Quella in corso in Tunisia è una dittatura e gli arresti degli ultimi giorni sono l’esito logico del colpo di stato del 25 luglio 2021”. In quella data Saied ha sospeso il parlamento ed il governo per assumere pieni poteri e “correggere il corso della rivoluzione”, come fece scrivere nella nuova costituzione.
“In una dittatura non è possibile, semplicemente, stare all’opposizione. O sostieni il regime, o vai in carcere” chiosa Nafti. A facilitare la torsione autoritaria, non sarebbero state solo le già citate operazioni di propaganda interna. Il fenomeno, sostiene l’analista nel suo saggio, è stato possibile anche per via di un processo di “melonizzazione” della politica migratoria europea. Se, nel secondo semestre 2021, diversi comunicati erano stati pubblicati dalle cancellerie europee per chiedere “il ritorno a un quadro costituzionale in cui il Parlamento giochi un ruolo significativo” più tardi l’attitudine di Bruxelles diventa sempre più conciliante.
Questo cambiamento, per Nafti, è legato all’elezione di Giorgia Meloni nel 2022, che ha saputo “imporre la sua agenda alla maggioranza degli stati membri”, facendo “del trattamento securitario della questione migratoria il principale asse delle relazioni con la Tunisia”. L’incontro a Roma è stato anche l’occasione per ricordarlo all’opinione pubblica italiana, mettendo in guardia sul significato degli accordi che Italia e Ue hanno stipulato con la Tunisia: “una parte delle vostre tasse – ha detto Naft i- finisce per finanziare coloro che mettono in carcere i nostri amici”.



