Migliaia di keniani hanno manifestato ieri per commemorare il primo anniversario delle rivolte del giugno 2024, in un clima di tensione caratterizzato da scontri con la polizia, diverse vittime e un tentativo di oscuramento dei media. Sono almeno due le vittime degli scontri, due manifestanti uccisi a colpi d’arma da fuoco a Matuu, nella contea di Machakos, mentre i feriti portati in ospedale sono centinaia: se ne contano almeno 107 solo a Nairobi e solo al Kenyatta Hospital, molti dei quali colpiti da proiettili veri. Ma potrebbero essere molti di più: secondo Amnesty International i morti nella sola giornata di ieri sono 16, la maggior parte “uccisi dalla polizia” e, ha dichiarato Irungu Houghton di Amnesty Kenya, almeno cinque sarebbero stati uccisi da colpi d’arma da fuoco. Secondo Houghton, il dato proviene dalla Commissione nazionale keniota per i diritti umani (Knchr) che ha quantificato in 400 i feriti, tra i quali si contano sia manifestanti che giornalisti e agenti.
Questo primo anniversario delle rivolte ha visto centinaia di migliaia di persone scendere in piazza, in particolare nelle città di Nairobi, Mombasa, Kisumu, Nakuru e in molte altre località del Paese. Secondo quanto riportato da Ntv, che ieri è stata poi oscurata, si sono verificati scontri isolati ma molto violenti a Mombasa e anche a Kitengela, Kisii, Matuu e Nyeri: la polizia, sin dal mattino, ha impiegato massicciamente le sue forze e tutte le strade di accesso al centro finanziario di Nairobi (Cbd), dalla superstrada di recente costruzione a viale Ngong, da via Jogoo a Murang’a, passando per Kilimani, sono state chiuse, transennate con filo spinato e piantonate. Un atto che, secondo un comunicato diffuso ieri sera da Amnesty International, è totalmente illegale. Gli scontri sono stati caratterizzati dall’uso massiccio di gas lacrimogeni, idranti, proiettili di gomma e persino munizioni vere. Molte vie d’accesso al Cbd sono state bloccate, ma i manifestanti, sin dal mattino, si muovevano a piedi o a bordo di motociclette, anche in gruppi di tre-quattro persone per moto, cercando di raggiungere il centro e manifestare. La pressione esercitata ha reso vano ogni dispositivo messo in campo dalla polizia, che, dopo aver utilizzato idranti e lacrimogeni (anche ad altezza uomo, come mostrano le immagini trasmesse in diretta da numerose testate keniane), presa dal panico ha iniziato a colpire con manganelli e a sparare proiettili veri.

Basta guardare alcune immagini per comprendere il contesto: durante le dirette, alcuni giornalisti chiedevano ai cameraman di mostrare la polizia intenta a malmenare le persone, spesso in situazioni di molti contro uno, con manifestanti a terra pestati a bastonate. In altre immagini si vedono agenti sparare con i fucili all’altezza della testa delle persone.
Proprio le dirette live sono state oggetto di un divieto emesso in mattinata dall’Autorità keniana per le telecomunicazioni, che ha proibito di trasmettere gli eventi in diretta, sia in tv che su internet. Lo hanno riportato tutti i principali quotidiani keniani, dal The Standard a Kenyans, che hanno continuato comunque a seguire le manifestazioni ignorando il divieto, imposto su richiesta del governo per limitare la visibilità delle proteste. Amnesty International ha denunciato questa misura come un tentativo di censura e un vero e proprio “blackout mediatico”. Nonostante il divieto, la maggior parte dei media ha continuato a trasmettere immagini caotiche e spesso molto violente, con numerose interviste ai manifestanti che gridavano slogan come: “Ruto must go, Ruto must go” (Ruto deve andarsene). Alcuni manifestanti hanno lanciato pietre contro la polizia e anche diversi agenti, tra cui una poliziotta ricoverata in ospedale, hanno riportato ferite. Le scene di tensione non hanno riguardato solo Nairobi ma anche altre città, in un generale contesto di violenza che ricorda la brutalità delle forze dell’ordine, denunciata sin dall’inizio delle proteste. Una brutalità che, nel tempo, si è consolidata e non è mai diminuita.

La miccia che ha fatto riesplodere le proteste è stata la morte in custodia di Albert Ojwang, insegnante e blogger con un discreto seguito. Arrestato e trasferito illegalmente a sette ore di auto dalla sua abitazione, è stato detenuto per alcune ore nel commissariato centrale di Nairobi ed è morto con evidenti segni di torture e sevizie sul corpo. Sei persone, tra cui tre agenti di polizia, sono accusate di omicidio, sospese dal servizio e arrestate. Questo episodio ha inevitabilmente alimentato la rabbia e l’indignazione pubblica, esplose poi con l’approvazione della nuova legge finanziaria, molto criticata – come quella dell’anno scorso – per gli aumenti fiscali sui beni di prima necessità, sul costo del lavoro e sui prodotti di largo consumo.
A livello internazionale, le reazioni non si sono fatte attendere: diversi ministeri degli Esteri, tra cui Stati Uniti, Regno Unito e Canada, hanno invitato le autorità del Kenya a rispettare il diritto alla protesta pacifica e a garantire la sicurezza dei cittadini. In risposta a tali pressioni, il governo di Nairobi ha promesso di aprire indagini sulle violenze.
Questi eventi riflettono una profonda crisi sociale, con una generazione giovane colpita da disoccupazione, corruzione e repressione che chiede un cambiamento radicale. Mentre il presidente William Ruto, salito al potere nel 2022, cerca con la sua retorica di calmare la situazione evitando aumenti fiscali diretti, la mobilitazione popolare prosegue ininterrotta. La richiesta è ormai chiara: il presidente deve andarsene. I manifestanti denunciano sia la violenza della polizia che il fallimento delle promesse elettorali, in un contesto di crescente sfiducia nei confronti del governo.