Insicurezza in Nigeria: la violenza è tecnologica

di claudia
Boko Haram

di Andrea Spinelli Barrile

L’intero fine settimana in Nigeria racconta un’emergenza nazionale. Per anni, i gruppi armati nigeriani si sono affidati a una rete di intelligence a bassissimo impatto di tecnologia: oggi, si sono evoluti. Una tecnologicizzazione del terrore dai costi enormi. Nessuno spazio, che sia familiare, pubblico, tradizionale o religioso, è più al sicuro.

L’attacco di Ejiba, nello Stato nigeriano di Kogi, avvenuto domenica scorsa è una chiara indicazione del fatto che l’insicurezza, in Nigeria, è entrata in una fase avanzata. Una fase caratterizzata dalla tecnologia in supporto dell’orrore, della sorveglianza aerea, dalla mobilità operativa e da una rinnovata propensione per obiettivi simbolici da parte di bande armate, assalitori e violenti.

Domenica 30 novembre, verso le 8 del mattino, molti abitanti di Ejiba, un insediamento agricolo in una zona remota nella zona occidentale di Yagba, hanno sentito uno strano e insolito ronzio sulle loro teste e hanno avvistato un drone che, per decine e decine di minuti, ha volato in tondo. Circa mezz’ora dopo il primo avvistamento del drone, un gruppo di uomini armati ha fatto irruzione nella chiesa dei Cherubini e dei Serafini, dove i fedeli erano immersi in preghiera.

Gli aggressori hanno rapito il pastore e sua moglie, oltre a un numero ancora imprecisato di fedeli, scomparendo poi nella fitta vegetazione che avvolge la comunità.

Se i fatti di Ejiba sono emblematici di un cambio di strategia, e di un miglior uso della tecnologia, da parte di queste bande criminali, l’intero fine settimana nigeriano racconta di un’emergenza nazionale (tale è stata decretata dal governo di Abuja) sempre più grave e che gronda sempre più sangue e dolore. In appena 24 ore la violenza ha travolto ben quattro stati del nord, tra sabato sera e domenica sera: visti nel complesso, gli attacchi (non correlati tra loro) formano uno schema agghiacciante, un attacco diretto ai luoghi sacri della Nigeria: chiese, moschee, matrimoni, fattorie e case.

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Sabato sera, verso le 11, il villaggio di Chacho, contea di Wurno, stato di Sokoto (Nigeria settentrionale), Halima si stava preparando, con le sue damigelle, al grande giorno, il suo matrimonio. Era la sua notte più importante, da nubile: canti propiziatori e riti, la cerimonia del lalle (l’henné, dipinto arabesque sulle mani e le braccia) e l’attesa dell’alba, per recarsi all’altare. Halima è stata portata via da un gruppo di uomini armati di fucili d’assalto, che con lei hanno portato via alcune damigelle e diversi invitati, ma già che c’erano hanno anche saccheggiato il bestiame che era destinato al banchetto nuziale del giorno dopo. L’abito di Halima è rimasto cucito a metà e l’henné è ancora nella ciotola in attesa di essere stemperato.

Nel villaggio di Yankamaye, nello stato di Kano, nella regione amministrativa speciale di Tsanyanwa, si è verificato un fatto simile quasi in contemporanea: tra sabato e domenica una donna è stata uccisa e altre tre sono state rapite durante un raid notturno mirato, che ha lasciato la comunità di confine paralizzata dalla paura.

Nel vicino Stato di Kwara, domenica mattina, è stato portato via Kamilu Salami, l’ojibara di Bayagan, un re tradizionale per il quale i suoi rapitori hanno chiesto il pagamento di un riscatto di 150 milioni di naira (poco meno di 90.000 euro).

Momenti simbolici di grande significato per la comunità e gli individui che diventano un teatro degli orrori. Nessuno spazio oggi, che sia familiare, pubblico, tradizionale o religioso, è più al sicuro: la sposa a Sokoto era nella sua casa di famiglia, circondata dai parenti, il monarca a Kwara era sulla sua terra, all’interno del suo dominio ancestrale, e le donne a Kano sono state aggredite nel loro villaggio.

Per anni, i gruppi armati nigeriani si sono affidati a una rete di intelligence a bassissimo impatto di tecnologia: hanno fatto ricorso alla coercizione, pagato informatori locali e utilizzato osservatori dislocati lungo le strade principali, spesso travestiti da venditori ambulanti, per mappare gli spostamenti degli abitanti dei villaggi e degli agenti di sicurezza. Oggi, si sono evoluti: secondo alcuni esperti di sicurezza citati da Premium times, il drone protagonista del rapimento di Ejiba era un quadricottero che costa pochissimo, tra i 900 e i 1500 euro, ma che consente una profonda scansione del terreno, la mappatura delle vie di fuga, conferma l’obiettivo, aiuta nel conteggio delle potenziali vittime, rileva la presenza delle forze di sicurezza, trasmettendo in video in tempo reale fin nella boscaglia.

terrorismo

Per le autorità nigeriane questa non è una novità ma il problema è la capacità di fronteggiare l’escalation tecnologica: già a ottobre, l’esercito nigeriano ha ammesso il fatto che i gruppi armati abbiano più volte utilizzato droni armati, lanciarazzi e altre armi per attaccare le truppe nello stato di Borno, una consapevolezza a cui non segue un’adeguata preparazione.

Il premio Nobel nigeriano Wole Soyinka, in un recente intervento presso il Government college di Ibadan, ha detto che l’insicurezza è diventata così pervasiva nel tessuto nazionale che le scuole dovrebbero iniziare a insegnare la “consapevolezza della sicurezza” come materia formale, un programma didattico su come individuare i pericoli, gli informatori, sopravvivere ai rapimenti e come nascondersi dagli uomini armati. Una considerazione che mette in luce una dolorosa verità: milioni di nigeriani sono costretti ad apprendere tecniche di sopravvivenza in risposta al fallimento dello Stato.

Questa tecnologicizzazione del terrore ha dei costi enormi e i sequestri servono a sostenere modelli di business che richiedono flussi di cassa costanti: un drone di sorveglianza con una buona autonomia costa tra 1,5 milioni e 3 milioni di naira. Per azionare questi droni e per negoziare i riscatti, i gruppi criminali aggirano le interruzioni delle telecomunicazioni locali utilizzando servizi Internet satellitari come Starlink, che richiedono costi hardware superiori a 500.000 naira (circa 300 euro) e abbonamenti mensili da 38.000 naira (circa 23 euro). E poi ci sono i costi della logistica: il carburante per le motociclette (il cui prezzo nell’ultimo anno è triplicato), le reti di informatori sui libri paga del governo e le scorte alimentari per le centinaia di miliziani. Il modello di business basato sui riscatti è da gig economy, diventa un gioco sempre più grande in cui ogni sequestro di persona è funzionale a incassare denaro per il sequestro successivo.

L’ondata di violenza in Nigeria non è un fenomeno isolato, ma è legata alla migrazione verso sud dei gruppi armati, spinta dalla pressione militare nel nord-ovest – un fenomeno noto come effetto palloncino, in cui la pressione esercitata su una parte fa sì che la pressione si espanda altrove. Oggi Zamfara, Katsina e Sokoto non sono più le capitali del terrore ma città satellite ai lussureggianti corridoi forestali indifesi, che collegano gli Stati di Kebbi, Niger, Kwara e Kogi, il cosiddetto Triangolo del terrore come lo chiamano i giornali in Nigeria.

Contrariamente a quanto sostiene l’amministrazione americana Trump, il governo federale nigeriano non resta con le mani in mano, ma la lotta è impari: Abuja sta cercando una svolta verso l’assistenza internazionale, il presidente Bola Tinubu ha recentemente ordinato la creazione di un team di alto livello per coinvolgere gli Stati Uniti in una nuova cooperazione in materia di sicurezza ed ha partecipato a Roma all’Aqaba process, proprio per favorire la cooperazione internazionale in ottica anti-terrorismo e anti-criminalità. Tuttavia, mentre si organizzano tavoli e commissioni, i gruppi armati già utilizzano droni per impiego tattico e sul terreno il divario è già enorme: per molti nigeriani, la preoccupazione non è se sia necessario un aiuto esterno, questo è ormai ovvio per molti. La domanda è se l’aiuto arriverà più velocemente del prossimo attacco con l’ausilio di droni.

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