di Céline Camoin
Foto di : Blandine Soulage
Il coreografo nigeriano Qudus Onikeku porta a Roma il suo nuovo spettacolo, Terrapolis, un viaggio spirituale e sensoriale che intreccia cambiamenti climatici, radici yoruba e ricerca di connessione con le forze della natura. Il 14 ottobre 2025 la prima nazionale al Teatro Argentina, nell’ambito del Romaeuropa Festival.
Una riflessione profonda e carica di spiritualità, partendo da uno dei fenomeni più scottanti dell’epoca che stiamo vivendo: i cambiamenti climatici, con le mutazioni planetarie e della condizione umana che ne conseguono, ma anche la riconnessione dell’essere umano con le forze della natura. È il palcoscenico di Terrapolis, l’ultimo spettacolo dell’artista e coreografo nigeriano Qudus Onikeku, la cui rappresentazione a Roma avverrà il 14 ottobre 2025 in prima nazionale al Teatro Argentina nell’ambito del Romaeuropa Festival (Ref), Lo spettacolo è coprodotto da Ref nell’ambito del di Dance Reflection, il programma di sostegno alla danza contemporanea Dance Reflection Van Cleef and Arpels.
“Si parte per un viaggio, si entra quasi in trance, portati dal ritmo della musica onnipresente, delle luci, dei colori, dei movimenti e della passione. Da questo viaggio non si uscirà indifferenti. Ognuno potrà interpretarlo a modo suo, ma è certo che si verrà trascinati in un vortice di emozioni”, afferma Qudus Onikeku nel corso di un’intervista, in collegamento video a Lagos, per la rivista Africa, mentre inizia il tour mondiale dello spettacolo.
Gli spettacoli di Onikeku sono vibranti, intensi, mettono in vetrina la ritmica veloce del tempo che corre assieme alla nuova generazione, in parallelo a un ritorno alle radici ancestrali influenzate dalla cultura e dalle credenze del popolo Yoruba, quello a cui appartiene il creatore di fama internazionale. “La connessione con la spiritualità nei miei spettacoli è un aspetto abbastanza personale – ci spiega Onikeku – fa parte di un progetto ‘decoloniale’. Il colonialismo è giunto per cancellare, in modo violento, e rimuovere la nostra maniera di essere, di fare, di sapere, di credere, di ballare, di possedere il proprio corpo, di tenersi in piedi. E di sostituire con un modo molto estraneo di fare tutto ciò. Se faccio queste provocazioni, se tali vogliamo chiamarle, è per interpellare la mia propria società. Il mio lavoro non vuole essere una critica dell’Occidente, ma invece vuole essere una critica della mia gente, che ha perso la propria via, che ha dimenticato. Volete sapere l’ironia? In yoruba, la parola che indica la performance è una parola il cui significato è “ricordare”. C’è una fortissima componente di “ricordo” nel valutare una buona performance. Quando si vede una buona performance, suscita nello spettatore un’emozione, che verrà ricordata. Quello che resterà da quel tuffo nella performance sarà proprio allo spettatore”.
Il collegamento dell’aspetto spirituale a quello dei rischi climatici proviene dalla “presa di coscienza che il tema, nei dibattiti, è diventato molto mentale, cervellotico, allarmista, ma è mancata la componente spirituale, che forse lo renderebbe più popolare”, ritiene Onikeku.

È dalla città che non dorme mai, dal melting-pot di Lagos, che ci risponde il creatore. Una vibrante atmosfera in cui tutti devono inventarsi stratagemmi per sopravvivere, dove essere creativi e ingegnosi vale per tutto, e dove una sana competitività spinge le persone a essere continuamente sulla cresta dell’onda. È forse per questo che un così alto numero di artisti, sia nel mondo della musica, del cinema, ma anche degli affari, proviene da Lagos. “Lagos, non è una città romantica, né quantomeno turistica. È una città di sopravvivenza, e questa capacità di sopravvivenza è un motore di creatività, che si può esprime in tante forme, dalle arti visite, alla musica, alla fotografia…”, analizza Onikeku. Questa energizzante atmosfera la si ritrova anche nelle performance dell’autore. Dalla studiosa e più organizzata struttura francese l’artista si è formato accademicamente, completando il percorso che gli ha permesso di acquisire la fama internazionale di cui gode. Il suo punto di svolta – narra – è stato l’incontro con il coreografo francese nato in Algeria Eddy Maalem, nel 2003. Dal 2004 e per vari anni ha lavorato con lui. “Il mio periodo che va dai miei 20 ai 30 anni è stato quello in cui ho forgiato la mia visione artistica ed è lì che la mia carriera è veramente decollata”, ci dice.
Ora, a 41 anni, Qudus Onikeku è già stato uno dei più amati sui principali palcoscenici internazionali, biennali e festival in 59 Paesi, tra cui la Biennale di Venezia, la Biennale di Lione, il Festival di Avignone, Roma Europa, Ted Global, Torino Danza, il Kalamata Dance Festival, Dance Umbrella, il Bates Dance Festival, il Festival TransAmerique, il Centre Pompidou, la Philharmonie di Parigi, ecc. Le sue opere di danza sono nella collezione permanente della National Gallery of Canada. È stato professore ospite di danza presso l’Università della California, Davis, e il Columbia College di Chicago. Qudus è attualmente il primo “Maker in Residence” presso il Center for Arts, Migration and Entrepreneurship dell’Università della Florida. La sua attuale ricerca, Atunda, esplora una soluzione deeptech, un set di dati pronto per l’intelligenza artificiale per il riconoscimento della danza e l’analisi del movimento, per porre le basi per sistemi interattivi all’avanguardia per sintetizzare, preservare, proteggere e condividere in modo sicuro i dati di danza e movimento nell’era della viralità.

L’agiata e ormai lanciata carriera in Francia di Onikeku non è tuttavia riuscita a competere con l’energia e la voglia di superarsi, di reinventarsi, di creare, che un teatro come Lagos poteva dare all’artista. Così, ha deciso di lasciare il Paese ospitante per svoltare, non fare solo delle coreografie qualcosa da mettere in scena, ma creare emozioni, muovere corpi, prendere un’idea e metterla in forma. “Ho iniziato a pensare: e se non pensassi alla danza come a qualcosa che si mette solo sul palco? E se la mettessi nella città? E se la mettessi nella società stessa? E poi, quello che io coreografo non sono solo corpi, ma anche problemi. Sono anche opinioni. Sono anche idee. E ho iniziato a pensare in quella direzione”.
Così è nato il Qdance center, “il laboratorio dove ora possiamo iniziare a fare qualcosa di simile alla pratica artistica. La pratica della vita quotidiana è da dove nasce l’arte. Non nasce da un’idea di coreografia che voglio solo fare. C’è qualcosa di molto romantico e fantasioso. Considerare tale o tale problema. Come possiamo pensare di risolverlo? Nello stesso modo in cui pensiamo alla coreografia. Come si arriva alla ricerca. Poi dalla ricerca, si sperimenta dall’esperimento e si inizia a comporre la composizione. Si fa la produzione e si dà la forma finale. E se non fosse danza? (…) Quindi, quando inizio a parlare di danza alla gente per strada, non la vedono come qualcosa di estraneo. Perché noi stiamo cercando di raggiungere lo stesso obiettivo. Ma io ci metto dentro solo il design thinking. Ci metto dentro anche il pensiero coreografico. E una volta che ho iniziato a pensare in questo modo, è cambiato il modo in cui vedo l’arte, il modo in cui vedo la composizione, soprattutto in relazione diretta con la società”.
“Così abbiamo iniziato a fare molti lavori di coinvolgimento della comunità. Facciamo molto lavoro di sviluppo dei talenti. Facciamo molta arte. Creiamo ancora molto lavoro nel mezzo, e poi facciamo insegnamento e tutoraggio dei giovani e istruzione”. Un mix di tutte queste cose, che basa il lavoro di Onikeku sulla comunità o sul luogo. “Questo lavoro lo stiamo facendo all’interno di una comunità e questa comunità oggi è composta da ballerini. Forse domani faranno altro, qualcosa di utile alla società. Prendersi cura di qualcuno in ospedale. Sentivo che questo era ciò che mi mancava nella pratica, perché la pratica era così individualizzata. Ora mi sento molto responsabile per una ‘tribù’. Ed è da lì che provengono il mio entusiasmo e la mia energia”.



