Bambini, like e caramelle: il nuovo colonialismo dell’immagine

di claudia

Di Chiara Ferri

Un reel da Zanzibar mostra una turista bianca che distribuisce caramelle ai bambini e scrive di aver “scoperto la felicità” nei loro occhi. Dietro gesti all’apparenza innocui si nasconde una dinamica antica: la messa in scena del “buon donatore”. Il nuovo colonialismo delle immagini oggi passa anche dai social.

Qualche giorno fa un’amica mi ha girato lo screenshot di un reel: una turista bianca a Zanzibar distribuisce caramelle ai bambini e posta il video su TikTok. Nella didascalia scrive di aver “scoperto cos’è la felicità” nei loro occhi. È un esempio quasi caricaturale di un immaginario che si ripete da decenni: l’illusione che lo sguardo di un bambino — di cui ignoriamo nome e storia — basti a racchiudere l’essenza di un concetto complesso come la felicità.

Il fascino dell’esotico funziona così: “io ho dato poco, ma quello che ho ricevuto in termini di umanità è immenso”. Nel caso di questo reel, pochi centesimi di dolci sono bastati per trasformarsi in epifania esistenziale da condividere online. Ma dietro a gesti apparentemente innocui si muove un’intera industria simbolica: il bisogno occidentale di mettere in scena la propria bontà.

Teju Cole lo ha definito “White-Savior Industrial Complex” (2012): non è tanto una questione di aiuto, quanto di validazione emotiva e riconoscimento sociale per chi dona. Non a caso il fenomeno è ormai così riconoscibile da essere diventato oggetto di satira: la pagina Instagram Barbie Savior ironizza sul voluntourism, mostrando la plasticità del gesto caritatevole e la smorfia performativa che lo accompagna (The Atlantic, 2016).

Il cuore del problema, però, sta nelle immagini. L’atto stesso di “dare” — anche un biscotto o una patatina — stabilisce una gerarchia: chi dona si pone su un piano superiore, chi riceve deve restituire almeno simbolicamente gratitudine e disponibilità. In molti casi ciò che viene restituito è l’immagine stessa: volti e sorrisi trasformati in contenuti per feed e stories.

Qui il consenso è ambiguo: anche se un genitore autorizza una foto, quel “sì” non è mai libero da pressioni, perché la dinamica di potere è squilibrata (ECPAT, 2019). E non si tratta solo di estetica. Come ricorda ECPAT: “i bambini non sono attrazioni turistiche” (2021). Pratiche come l’orphanage tourism o certe forme di voluntourism aumentano i rischi per i minori, favoriscono l’istituzionalizzazione a scopo di lucro e li espongono a potenziali abusi.

La ricerca conferma gli effetti negativi: l’orphanage tourism incentiva il reclutamento di bambini in strutture e contribuisce alla mercificazione dei corpi (Frontiers in Psychology, 2020). Non si tratta solo di “bambini neri” astratti, ma spesso di corpi già marginalizzati — femminili, poveri, infantilizzati — che diventano consumabili.

Uno sguardo transfemminista aiuta a leggere questa dinamica come riproduzione di relazioni patriarcali e coloniali: il privilegio bianco non solo regala, ma decide chi merita di essere visto, fotografato, raccontato (ScienceDirect, 2022). La logica neoliberale completa il quadro: volti e sorrisi diventano capitale simbolico, convertibile in like, follower, reputazione. È la commodification della povertà: il capitalismo applicato all’umanitario.

Gli studi più recenti sul voluntourism mostrano come la domanda di esperienze “autentiche” e “significative” premi emozioni individuali e visibilità personale a scapito di impatti reali e sostenibili (SAGE Journals, 2019; ScienceDirect, 2021). Sul terreno, le conseguenze sono tangibili: la perpetuazione di un ordine simbolico che conferma la superiorità del donatore, la normalizzazione di comportamenti assimilativi (bambini che imparano a chiedere soldi ai bianchi), la cristallizzazione di rapporti di potere diseguali.

Il gesto della caramella non riduce le disuguaglianze strutturali: le riproduce e le legittima (ECPAT, 2021). Decentrare lo sguardo occidentale non è un esercizio morale: è un atto politico. Significa riconoscere che sorrisi, corpi e pratiche sociali esistono indipendentemente dalla nostra interpretazione. Vuol dire lasciare spazio alle narrazioni locali, sostenere progetti determinati dalle comunità, rifiutare la gratificazione simbolica a buon mercato.

In concreto: non fotografare né condividere immagini di minori senza consenso pieno e informato; privilegiare relazioni di lungo periodo con partner locali; ascoltare bisogni e richieste delle comunità invece di imporre la propria agenda.

Se lo scopo del viaggio è l’esperienza, viviamola davvero: tuffi, safari, incontri culturali rispettosi. Ma se il fine è compiacerci attraverso un post, allora partecipiamo a una nuova forma di colonialismo — aggiornato all’era dei social — in cui a essere sfruttati sono corpi, immagini e narrazioni. Decentrare l’Occidente non significa rinunciare al viaggio: significa smettere di usarlo come palcoscenico del nostro ego.

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