di Federico Monica
Tra caldo soffocante, memorie coloniali e ferite ancora aperte, la città portuale di Massaua, in Eritrea, appare come un miraggio di pietra e polvere sul Mar Rosso. Fondata dagli arabi, passata per dominazioni e devastazioni, oggi vive sospesa tra rovine e resilienza. Di giorno città fantasma, di notte si anima al soffio leggero della brezza marina.
Ci avevano avvertiti: a Massaua fa caldo, molto caldo. Specialmente in agosto. Se poi si scende dalla vertiginosa strada coloniale che con una serie infinita di tornanti la collega in meno di cento chilometri ai 2.300 metri di altitudine di Asmara, l’impatto è ancora più forte.
“Tre stagioni in tre ore”, dicono gli eritrei, ironizzando sui repentini cambiamenti di temperatura che comporta questo percorso dall’altopiano alla costa del Mar Rosso. Hanno ragione: il termometro non scende sotto i trenta gradi neppure nel cuore della notte, mentre durante il giorno supera stabilmente i 45.
Nella canicola umida che avvolge ogni cosa la città compare come un miraggio tremolante in mezzo all’azzurro del mare. Distribuita su due piccole isole pianeggianti collegate fra loro e alla terraferma da lunghi ponti, racconta nelle sue forme e nelle sue architetture un palinsesto unico di memorie, dominazioni e ferite ancora aperte.

Fondata con ogni probabilità dagli arabi nel VII secolo, subì il dominio portoghese, ottomano, egiziano e infine dell’Italia che la conquistò senza colpo ferire nel 1885, e che ne fece in epoca fascista “la porta dell’Impero”, da cui passarono truppe, armi e suppellettili per l’aggressione coloniale all’Etiopia.
L’isola di Massaua, nota anche come Batsi, conserva ciò che resta delle memorie più antiche, legate alla dominazione araba e ottomana: stretti vicoli, portali intagliati con iscrizioni del Corano, frangisole in legno che coprono balconi e finestre dai raggi del sole e dagli sguardi indiscreti lasciando passare un costante filo d’aria, semplici moschee con cupole bianche di calce e tozzi minareti.
La seconda isola, chiamata Taulud, fu invece scelta dalle amministrazioni coloniali italiane come luogo per le residenze e i servizi di funzionari e governanti; su un reticolo di viali e ampie strade regolari si affacciano ancora ville, palazzi e hotel in stile ecclettico od orientaleggiante, inesorabilmente sostituiti da anonime palazzine in cemento.
La storia di Massaua è fatta però soprattutto di devastazioni e distruzioni: il grande terremoto del 1921 che la rase quasi interamente al suolo, i piani regolatori coloniali e soprattutto le battaglie senza quartiere degli anni Ottanta per ottenere l’indipendenza dall’ultima potenza dominante: l’Etiopia.
Ciò che ne resta è solo l’ombra di un passato variegato e fiorente, appena leggibile nelle sue strade polverose, fra le rotaie ritorte dal sole, i fori delle cupole sventrate dai colpi di artiglieria o nei cumuli delle sue antiche pietre sovrastate dalle gru arrugginite del porto.

Tutto sembra essere esausto a Massaua, stremato dai ricorsi della storia, da un presente asfittico e dalla calura senza tregua; tutto ha l’aspetto di una rovina ed è difficile leggere con chiarezza cosa sia antico e cosa no, quali architetture siano sopravvissute ai secoli e quali siano recenti o posticce: le guerre, la polvere sottile e la potenza rovente del sole hanno limato ogni cosa, avvolgendo con una patina decadente questa città di macerie.
Nella luce lattiginosa del pomeriggio i muri in pietra delle case mezzo diroccate scottano, ci si muove rasenti alle pareti cercando le ombre sottili, nella penombra dei pochi portici rimasti o nelle strade più anguste di una città fantasma che sembra totalmente inabitata.
La vita inizia al calar del sole, quando dal Mar Rosso si alza un impercettibile soffio umido e salmastro; chi vive qui conosce l’importanza della brezza, di come sfruttarne ogni alito per poter sopravvivere al caldo incessante, e così le strade iniziano lentamente ad animarsi, le botteghe aprono i pesanti portoni in legno e piccoli bar si illuminano di fioche luci al neon.
Ma in agosto a Massaua il caldo è troppo forte anche la notte, e così si spalancano le porte delle case, si allineano semplici brandine sui marciapiedi e si passa il tempo o si dorme fuori, nelle strade e nei cortili.
Camminiamo nel buio delle vie polverose circondati da corpi stesi e avvolti da voci impercettibili, piccole radioline gracchianti, sussurri, o dal respiro pesante del sonno. Gli spazi pubblici sono diventati salotti, sale da pranzo, stanze da letto. Vorrei scattare una foto, o tante, ma il timore di risultare invadente e l’oscurità non lo permettono. E forse è giusto così: certe cose devono restare nella memoria, incerte e impalpabili come i miraggi o come i sogni del primo mattino.
Questo articolo è stato pubblicato sul numero di novembre-dicembre della rivista Africa. Clicca qui per acquistare una copia.


